Nei giorni 28 e 29 aprile si terrà a Padova il primo Marillion Weekend italiano. Nell'attesa stiamo ripercorrendo la storia della band, con una serie di articoli che trovate qui. Se siete interessati ad acquistare i biglietti per il Marillion Weekend di Padova, cliccate qui.
Ecco la discografia di studio dei Marillion (dopo l'uscita di Fish) commentata album per album.
1989 – Seasons End
Composti quando ancora Fish era in formazione, i brani di “Seasons End”, vedono il suono dei Marillion farsi più solido, a tratti decisamente rock. La voce di Steve Hogart, così diversa da quella del suo predecessore, dona al tutto un senso di freschezza, specie quando si misura con le nuove istanze messe in campo, vedi il singolo “Hooks in you” che fa storcere non poco il naso agli aficionados di vecchia data. Altrove lo sguardo rimane puntato sul passato - con l'atmosferica title track e il potente inno “The space” -, si tenta una mediazione tra vecchio e nuovo in “Holloway Girl” e “Berlin” e si sposano afflati folk in “Easter”. In definitiva “Seasons End” è un disco che non permette di capire molto sul futuro della band ma è indubbiamente pieno di grandi canzoni.
1991 – Holidays in Eden
Con l'errata convinzione di potere tornare ai fasti di “Kayleigh” i Marillion dallo alle stampe il loro album più pop, spesso odiato dai fan ai pari di un “Abacab” genesisiano. “Holidays in Eden” svolge degnamente il suo compito nelle simpatiche “No One Can” o “Dry Land”, dà il suo peggio nell'orrenda title track e anche quando continua mediare (vedi la suite “This Town/The Rakes Progress/100 Nights”) i risultati non fanno saltare sulla sedia. La soffusa-esplosiva “Splintering heart” cerca di mettere a posto le cose, ma non basta.
1994 – Brave
L'insuccesso di “Holidays in Eden” fa per fortuna capire alla band che col pop è meglio lasciar stare. Urge tornare a far parlare la creatività, cosa che favorisce un pazzesco balzo in avanti, la messa in scena del disco fino a quel momento più ambizioso: un concept album di 74 minuti riguardante una giovane trovata in stato confusionale dalla polizia sul ponte inglese Severn Bridge. “Brave” è il “The Wall” marillioniano, un saliscendi labirintico ed emozionale, un album nel quale la band si stacca definitivamente dall'influenza Genesis e crea un suono originale, un moderno mix di rock, elettronica, folk, ambient e molto altro. “The Great Escape”, con il suo struggente crescendo, è una delle più intense canzoni della storia.
1995 – Afraid of Sunlight
“Afraid of Sunlight” è (quasi) bello come “Brave” ma non è concept. I Marillion cercano di portare avanti una musica realmente progressiva, che evolva sempre e che non si neghi nulla. Ciò non piace tantissimo ai prog fan più legati al passato, e quindi la band nel 1995 e ancora per qualche anno dovrà cercare di arrabattarsi, alla ricerca di un nuovo pubblico che ancora non esiste. Detto ciò “Afraid of Sunlight” ha momenti superbi, ad esempio il trittico “Afraid of Sunrise/Out of This World/Afraid of Sunlight”.
1997 – This Strange Engine
Qui dentro c'è il brano più lungo che i Marillion hanno messo in piedi dai tempi di “Grendel”. I 17 minuti di “This Strange Engine” sono però quanto di più dissimile possa esserci rispetto alla suite del 1982. Se lì c'era un gruppo agli esordi che si divertiva a omaggiarne un altro ben più noto, ora ci sono cinque musicisti maturi che creano una formula tutta loro. Anche il resto non è malaccio (“Estonia” su tutte) ma fa intravedere qualche crepa. Intanto la EMI li molla.
1998 – Radiation
La crisi è manifesta, il problema non sono certo i suoni o la perizia strumentale ma la qualità delle canzoni che è blanda e poco originale. “Three Minute Boy” torna addirittura alla mediocrità di “Holidays in Eden”, “These Chains” è anche peggio. “A Few Words for the Dead” prova a riscattare l'album dai suoi inciampi ma ci riesce solo relativamente.
1999 – marillion.com
Nel 1999 i Marillion hanno una voglia pazza di essere un gruppo al passo coi tempi, mentre i Radiohead con “Ok computer” hanno dimostrato che esiste una sintesi tra prog e modernità i nostri si ritrovano impantanati. Fanno produrre l'album a Steven Wilson che riempie il tutto di atmosfere futuribili, si spingono verso il trip-hop, fanno l'impossibile per far colpo su nuovi fan ma non ci riescono. “Interior Lulu” e “House” sono interessanti ma la scintilla latita.
2001 – Anoraknophobia
Da una parte c'è la frustrazione di piacere solo ai vecchi nerd che ancora sognano sulle note di “Fugazi” e sperano in un ritorno ai quei fasti (i Marillion li definiscono Anorak, perché indossano spesso giacche a vento), dall'altra c'è l'idea del crowfunding che viene accolto da oltre dodicimila fan, permette l'uscita del disco e favorisce anche il ritorno della EMI per la distribuzione. Per il resto “Anoraknophobia” è una raccolta altalenante, con “Quartz”, “This is the 21st Century” e “If My Heart Were a Ball It Would Roll Uphill” a rappresentare le migliori tracce.
2004 – Marbles
Con “Marbles” i Marillion trovano finalmente la quadra mettendo d'accordo vecchi e nuovi estimatori in una serie di brani dotati della giusta allure prog '70 che convive in armonia con le più moderne influenze, come già successo in “Brave” ma con ancora più maturità e consapevolezza. Un vero miracolo. Anche a livello di songwriting il disco fa un enorme passo avanti rispetto al precedente, lo testimoniano gemme come “The Invisible Man”, “Fantastic Place”, “Neverland” e l'immersiva suite “Ocean Cloud”.
2007 – Somewhere Else
Nemmeno il tempo di gioire che nel nuovo album già si avverte qualche scricchiolio. Grazie al successo dell'autogestione i Marillion si sentono finalmente liberi di proporre quello che vogliono senza ingombranti case discografiche in mezzo. A livello artistico però si sconta di nuovo un calo di ispirazione, soprattutto per la tendenza di realizzare canzoni che vedono la voce di Hogart onnipresente. In questo modo gli arabeschi musicali di cui era capace la band vengono soffocati. “Somewhere Else” non è brutto, è solo noioso.
2008 – Happiness Is the Road
Vista l'esperienza del precedente il fatto che “Happiness Is the Road” sia un lunghissimo doppio album non tranquillizza affatto. Nel calderone ci sono sicuramente alcune buone canzoni (“Thunder Fly”, “The Man from the Planet Marzipan”, “Asylum Satellite #1”, “Real Tears for Sale”), ma il tutto suona spesso ripetitivo e senza grandi idee. Sembra che i Marillion si siano fossilizzati in un certo tipo di suono e costruzioni dei brani e non ne vogliano più uscire. Il fatto che poi ogni tanto facciano il verso ai Coldplay non depone certo a loro favore.
2012 – Sounds That Can't Be Made
I difetti si fanno sempre più evidenti: lungaggini, poca ispirazione, troppo spazio concesso a Hogart. Ciò nonostante qualcosa sembra muoversi in direzione positiva: la nuova suite “Gaza” ha momenti interessanti, così come “Invisible Ink” e “The Sky Above The Rain”. Forti del successo dei loro dischi forse i Marillion si stanno preoccupando poco della propria evoluzione artistica, al contrario di come avevano fatto in passato. Adesso è il momento di rimettersi in gioco.
2016 – F E A R (F*** Everyone And Run)
In “F E A R ” non ci sono grandi mutamenti ma una maggiore attenzione alla qualità dei brani che torna a farsi alta. Diviso concettualmente in tre epiche suite (con due brani più brevi a fare da contraltare) mette in campo atmosfere spesso oscure e distopiche che descrivono la disillusione di Steve Hogart nei confronti dei problemi irrisolvibili che funestano il mondo.
2022 – An Hour Before It's Dark
Finalmente il ritorno alla piena luce in quello che da molti è stato definito come il migliore album della band. Difficile valutarlo, ma sicuramente “An Hour Before It's Dark” splende grazie a una solida compattezza, un minutaggio finalmente non esagerato, belle parti strumentali che suonano prog come non succedeva da tempo e canzoni che sanno farsi egregiamente ricordare, su tutte la suite “Care”, uno dei punti più alti mai raggiunti dai Marillion di Hogart. E arrivare a certe vette anche dopo 40 anni di carriera non è niente male.