Zucchero: "Oggi si fanno gli stadi dopo un solo album..."

Il diavolo, i colleghi, 40 anni di carriera e l'evento "Il diavolo in r.e.": l'intervista

Il diavolo e l’acquasanta, il tormento e la felicità, la musica italiana e il blues: Zucchero vive di opposti e di contrasti. Ed è senza filtri, nel raccontare e raccontarsi: lo abbiamo visto, per l’ennesima volta, nei giorni scorsi quando una sua battuta su Sanremo ha fatto il giro dei media, e lo ha costretto ad una precisazione. Così va preso,  anche quando - come in questa intervista - parla di chi fa gli stadi dopo un solo album. Una considerazione senza polemica di chi sa come vanno le cose.
La prossima estate terrà “Il diavolo in R.E.", due concerti per 35.000 persone sedute alla RCF Arena di Reggio Emilia, l’ex Campovolo. Ma è stato tra i primi italiani a fare gli stadi, quando erano terreno (quasi) solo degli stranieri. Era la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90: il periodo d’oro e allo stesso tempo quello più brutto della sua carriera/vita. Il rammarico è di non avere insistito su un percorso ormai battuto da molti altri artisti, la certezza è che la sua musica è più adatta per altri spazi.

Cosa ha a che fare il diavolo con Reggio Emilia?
Sono cresciuto tra il diavolo e l’acqua santa: avevo la chiesa di fronte, dove ho imparato a suonare l’organo e facevo il chierichetto, ma c’era anche la cooperativa comunista dove andavo a giocare a pallone. La zona della bassa è stata sempre un po’ da mangiapreti - ma con rispetto. Mio zio era marxista, ma il suo amico più caro era il prete

Sei stato tra i primi a fare gli stadi in Italia.
Venivo da “Blue’s”, un disco che andò benissimo, ma l’unico rammarico è che non eravamo ancora pronti. Oggi si fanno gli stadi anche solo con un album, allora bisognava essere un artista consolidato. Abbiamo fatto gli stadi, poi non abbiamo continuato, non abbiamo coltivato il nostro pubblico. Ero giovane ed inesperto, facevo quello che mi dicevano di fare.

Che ricordo hai di quell’esperienza?
Mi ricordo che furono dei concerti belli e coinvolgenti, già allora avevo una band enorme, con musicisti come Corrado Rustici e David Sancious, avevo i fiati, le coriste. L’unico rammarico è stato proprio di non avere continuato. 

Perché non li hai più fatti, preferendo le arene?
Ci sono tornato qualche volta, a San Siro e all’Olimpico. Ma per la musica che faccio, mi sento più a mio agio nelle arene, quelle fatte per la musica come quella di Verona o come questa di Eeggio Emilia, con i posti a sedere. Vedo tutti e mi sembra di arrivare a tutti: negli stadi sembra più un evento a cui ci devi essere. C’è un rituale diverso

Festeggi 40 anni di carriera. Il momento più bello?
Come faccio ad elencarli tutti? Il tour con Eric Clapton, in cui mi sono ritrovato a suonare nelle arene di mezza Europa, comprese 12 sere alla Royal Albert Hall: cominciarono a pubblicare i miei dischi anche fuori dall’Italia. In quel periodo ne capitarono di tutti i colori, come Wembley con i Queen, “Miserere” da cui nacque il Pavarotti and Friends.… È capitato tutto tra l’89 e il 93.

Il momento più brutto?
 Sempre il periodo tra l’89 e il 93: quegli anni non me li sono goduti, la mia vita familiare era a rotoli. Separazioni e casini: da un lato un trionfo, dall’altra ero sotto terra.

Il duetto più bello della tua carriera?

il primo fu quello che mi ha più scioccato, era quasi impossibile: Miles Davis su “Dune Mosse”, da cui sono nati anche gli altri. Anche qua impossibile elencarli tutti: ho fatto grand cose con Eric Clapton, con BB King, una bella performance con i Queen a Capetown oltre che a a Wembley, al Madison  Square Garden con Sting…

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