I Public Enemy sono un classico fuori dal tempo

35 anni fa l'esordio discografico del gruppo newyorkese

I Public Enemy sono una delle grandi posse dell'hip hop della vecchia scuola, quella degli anni Ottanta. Maestri riconosciuti e politicizzati del genere. Dalla loro un esordio importante con l'album "Yo! Bum Rush the Show" nel 1987, bissato l'anno successivo dal capolavoro "It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back", qualcosa più di un classico. Il leader dei Public Enemy, Chuck D, ha definito il suo gruppo 'la CNN del ghetto' e ha tenuto fede a questa sua azzeccata definizione fino ai giorni nostri.

Cogliamo l'occasione di festeggiare il 63esimo compleanno del pard musicale di Chuck, Flavor Flav, per proporvi la nostra recensione di "There's a Poison Goin' On", il settimo album in studio dei Public Enemy, pubblicato nel luglio del 1999. Il suo titolo rimanda direttamente a "There's a Riot Goin' On" di Sly & the Family Stone, album fondamentale della musica nera e non solo, uscito nel 1971.

«Now what sound of my dj cuts/Terminator¹s back on some ol¹ fools track/Takes a nation of sellouts to keep us back/Flippin disco raps used to be whack/Now what you hear is what you lack/Take a lil bit of this a lil bit of dat/Who dropped the bomb on hip hop/Who got Biggie and who shot Tupac…» “There’s a poison goin’ on” inizia così e in una parola sta a voler dire che i Public Enemy sono tornati. “Una Lamborghini impantanata nel fango”, così li descriveva ancora qualche mese fa il loro leader Chuck D, quando pensava al suo album solista e intanto realizzava con il gruppo la colonna sonora di “He got game” per Spike Lee.

Del “profeta di rabbia” arrivava nei negozi anche un libro-manifesto, “Fight the power – rap, race and reality”, che dimostra ancora una volta come il leader dei Nemici Pubblici sia una delle teste più lucide della scena hip hop. Negletti in patria, ridicolizzati da una certa parte dell’hip hop, che li considera dei sopravvissuti e oscilla su posizioni morbide e concessive al mercato, i PE sono osannati e omaggiati da tanti altri, e se sembrano fuori dal tempo, è proprio perché loro per primi hanno deciso di collocarvicisi: non vogliono più major (e comunque le major non vogliono più loro) ma libertà e autonomia, e all’alba del millennio hanno trovato il modo per realizzare il loro sogno. Si chiama internet, e con questo grande e buon fratello Chuck D & company portano il loro attacco al cuore del sistema. Dopo aver permesso free downloading dal loro sito, fomentato ascolti e vendite tramite website, con in testa un sistema di vendita quasi “door to door”, i PE vendono ora il loro cd in maniera quasi artigianale, appoggiandosi a etichette e distribuzioni indipendenti.

«Le major sono un dinosauro la cui testa non sa cosa sta facendo il gomito», sentenzia Chuck D e profetizza la libertà di mercato e di contenuto artistico con i singoli artisti in onda sul web. Ma di cosa parla “There’s a poison goin’ on…”?: di tutto questo, e di altro, comprese le finte illusioni legate all’exploit della tecnologia. Libero sarà chi penserà in modo libero, non chi avrà semplicemente accesso al computer, visto che la società ha già trovato il modo di creare nuove figure di “raccoglitori di cotone elettronici”, i nuovi schiavi multimediali. Il millennio visto come muro da superare, dietro il quale albergano le solite, irrisolte contraddizioni di una società che corre senza una direzione, attenta solo al danaro, i ripetuti inviti alla comunità di colore a ritrovare la propria identità culturale e la propria lucidità intellettuale, senza prestarsi al gioco del potere che da sempre è gestito comunque dal bianco anche quando dentro la giacca e la cravatta c’è un nero…una rivoluzione che Chuck D ribattezza “revolverlution”, parola dai toni niente affatto rassicuranti: i PE si ripresentano come i custodi della coscienza civile hip hop alle porte del nuovo millennio.

Il tutto sostenuto dall’impasto sonoro a metà strada tra musica e rumore che dei PE è sempre stato il marchio di fabbrica: non c’è più il formidabile team produttivo del Bomb Squad accanto ai Nemici, ma il suono del gruppo, seppur con qualche concessione di troppo all’old school, è ancora presente; forse non più potente e trascinante come allora, con qualche buco di troppo tra le proprie fila nei momenti di corpo a corpo ma in compenso sinuoso e irresistibile nei mezzitempo (“LSD”, “Crash”, “World tour sessions”) e nel brano iniziale “Do you wanna go our way???”. Se l’importanza del messaggio, nei Public Enemy, è sempre stata accompagnata da una musica dall’impatto micidiale, è da tempo che le loro parole pesano molto più del suono e che quindi un album come questo chiede di essere valutato in maniera diversa, più come uno scritto che come un prodotto musicale. Questa è la sua nobile peculiarità, questo in alcuni momenti il suo limite. Manca la furia degli esordi, la felice maturità del periodo di mezzo, ma non c’è neanche la voglia di inseguire stili, idoli e mode. I PE sono un classico, ormai, fuori dal tempo, e il loro messaggio – a sentire loro manipolato e anestetizzato dai media di sistema - continua comunque a emanare il fascino prezioso delle voci di protesta che si levano fuori dal coro. Per sempre contro, per sempre Nemici Pubblici.

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