Massimo Del Papa - HAPPY - L'INCREDIBILE AVVENTURA DI KEITH RICHARDS - la recensione

Recensione del 28 set 2010

Questo non è un libro per vecchi, ma nemmeno per giovani. I primi già sanno, i secondi avrebbero bisogno di maggiori dettagli prima di apprezzare compiutamente questo ritratto di un bandito, questa epopea di un eroe romantico, questi frammenti di codice del rock and roll. Non è né una biografia nè un’analisi tecnico-musicale: “Happy” , forse, è un saggio informale su Keith Richards. Nell’anno in cui il mondo si è ritrovato a celebrare i fasti di “Exile on Main St.”, l’album di Keith per antonomasia (registrato nella sua villa in affitto sulla Costa Azzurra, concepito e partorito sui suoi bioritmi e cadenzato dal suo stile di vita), uno dei cui brani dà il titolo al libro, Del Papa lascia il capolavoro a distanza di sicurezza, e fortunatamente parla d’altro.

Di “Happy” va subito detto che si tratta di uno di quegli infrequenti episodi di scrittura di qualità nella vasta e spesso ridondante produzione a tema rock. L’autore, che si autodefinisce poetista (poeta e giornalista: mah), scava dentro un mito e lo inquadra da molti punti di vista: utilizza sempre gli aneddoti a riprova della teoria, che molto poggia sull’indole criminale del chitarrista, su certi dettagli fisiognomici e su svariati suoi vezzi estetici, tutti elementi di un mix che si sono combinati in una cifra stilistica imitata abbondantemente, però per sempre inimitabile. Spiegare la quintessenza di un mito si può, ma comprendere appieno un mito vivo è più difficile: diventa addirittura molto complicato nel mondo del rock, dove i benchmark sono sotto terra. Del Papa ci prova, e si fa apprezzare per questo. Il suo buon lavoro consiste nell’accostare i contrasti di Keith Richards per farlo emergere come figura unica: autodistruttivo ma non suicida, edonista ma spartano, decadente ma essenziale, bohemien ma capitalista. Ma anche, e soprattutto, morto e risorto un paio di volte. Un fuorilegge al servizio della musica, un anarchico rigoroso, un disobbediente civile ante-litteram devoto solo ai padri fondatori del blues - e a Chuck Berry.

Poi càpita a qualsiasi richardsiano di lasciarsi prendere un po’ la mano. Anche a Del Papa, che fa un po’ come il suo idolo suona la chitarra: descrive per sottrazione. Toglie ad altri per riconoscere a Keith. Non serve, ometterei confronti spesso arbitrari e, soprattutto, lascerei in pace Jagger: paragonarli è un esercizio sprecato, sono due grandezze incommensurabili (e insignificanti ‘una senza l’altra). Anche l’immagine malavitosa intorno a ‘Keif’ è sopravvalutata, la malavita è un’altra cosa. Ma se sei un fan degli Stones, se ti cibi di rock, se ti interessa provare a comprendere sempre meglio una cultura non solo musicale che ha virato da tempo intorno alla boa dei cinquant’anni, devi concederti un cazzeggio di alto livello, devi permettere all’autore e a te stesso di indulgere in particolari per iniziati, devi partire ogni tanto per la tangente. Io rientro nel profilo: ho letto “Happy” con gusto e mi ha lasciato con con un supplemento di convinzione: “rockstar” – il termine, lo stile, l’epica, le conseguenze - significa tendere a Keith Richards. Ma lui non lo sapeva.

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