Ma questo è il limite delle autobiografie (non solo di quelle dei cantanti) che non vengono realizzate con l’aiuto, l’appoggio e l’esperienza di un editor. Risultano (piacevolmente) personali, ma anche, come in questo caso, un po’ disordinate, un po’ squilibrate, perché è mancato un interlocutore che sollecitasse i ricordi, li sistematizzasse, e rimettesse in bella copia il materiale grezzo costituito dalle rievocazioni della memoria del protagonista. Se Umberto Tozzi si fosse fatto intervistare, intendo, anziché decidere di fare da sé, probabilmente il risultato finale sarebbe stato più corposo, più denso, e assomiglierebbe più a un libro che a una raccolta di pagine di diario.
Che piacerà molto ai fans, certamente, ma che è anche un’occasione in parte perduta per raccontare “dall’interno” una fetta di storia della canzone leggera italiana.