Perché alla fine, “My generation”, non parla (solo) di musica, ma di “commercializzazione della cultura”, come sottolinea Moby in una delle tante interviste presenti nel filmato. E soprattutto parla di come i giovani d’oggi siano sì più disillusi nell’accettare il marketing selvaggio, ma anche come possano reagire in maniera scomposta, se provocati: tra le immagini più belle e inquietanti di questo documentario ci sono quelle degli incendi e delle rivolte che chiusero l’edizione del 1999. Apparentemente una sorta di ribellione contro il “vendere, vendere, vendere!”, che è stato il motto delle due edizioni degli anni ’90. Un altro dato interessante: il Woodstock del 1994 venne salutato come un successo artistico; ma fu comunque un flop commerciale, nonostante le sponsorizzazioni, il merchandising ed il marketing onnipresente. La Polygram fu coinvolta nella produzione dell’evento, e quindi nel flop: tutti le persone della casa discografica che fecero parte del progetto vennero licenziate o se andarono nel giro di sei mesi.
“My generation” ha la classica struttura documentaristica del “rockumentary”: riprese, interviste alla “gente” e ai protagonisti –musicali e organizzativi -, canzoni. E’ centrato soprattutto sui Woodostock '94 e '99 e sul protagonista assoluto: quel Michael Lang che nel ‘69 come nel ’94 e nel ’99 è stato il deus ex-machina dell'evento.
Forse l’utente medio di questo genere di film si aspetta di vedere un po’ di musica in più (in realtà qua ci sono solo ampi spezzoni, quasi mai brani interi). Ma alla fine la musica, le canzoni, sono solo una scusa per parlare d’altro: sopravviverà il pubblico della musica, sopravviverà la musica alla commercializzazione selvaggia? La risposta, come diceva qualcuno, soffia nel vento.