Se poi le poesie di McCartney abbiano effettivamente rilevanza poetico-letteraria, è una questione che lasciamo volentieri ai critici specializzati: leggendole, a noi appaiono più emozionanti quelle che già conoscevamo in forma di testi di canzoni, sia perché sollecitano risonanze complesse legate ovviamente alla musica con cui si accompagnavano, sia perché alcune – diremmo su tutte “Eleanor Rigby” – ci paiono davvero intense e suggestive.
Delle altre, quelle che McCartney ha scritto negli anni e “ripescato da vecchie scatole di latta” in occasione di questa pubblicazione, possiamo solo dire che non ci sembrano capolavori: molto personali, spesso autobiografiche, tutto sommato (se possiamo osare) abbastanza adolescenziali, proprio nel senso che assomigliano alle poesie che quasi tutti noi abbiamo provato a buttare giù da ragazzi per fare colpo sui compagni di scuola o su qualche giovinetta di cui ci credevamo innamorati: intellettualoidi, sentimentali, con qualche parola difficile o desueta che desse l’impressione che eravamo acculturati e frequentatori del vocabolario.
In altre parole: se l’autore di queste poesie non fosse Paul McCartney, avrebbe trovato un editore disposto a pubblicarle? Ma questa domanda vale anche per tutti i libri scritti da cantanti, per tutti gli articoli di giornale scritti da cantanti, per tutti i quadri dipinti da cantanti. Da noi, in Lombardia, il proverbio recita “Ofelé, fa ‘l to misté” (scusate la grafia, che sicuramente non rispetta i crismi ma è soprattutto fonetica). Ovvero. “Panettiere fai il tuo mestiere”. E lascia che gli altri facciano il loro.
E questo libro, lasciatelo ai collezionisti beatlesiani.