Pete Townshend - FISH&CHIPS E ALTRI RACCONTI - la recensione

Recensione del 09 feb 2000

Leggi Pete Townshend e capisci chi è. E capisci perché gli Who, perché quei riff secchi e devastanti che vorrebbero tirare giù il mondo. Leggi Pete Townshend e scopri i mille perché di un uomo che ha sempre vissuto il contrasto tra ciò che era e ciò che avrebbe voluto essere, con il suo attaccamento disperato a quella band che sola, a volte, incarna per lui qualcosa di incontaminato e sacrale, nonostante i mille scioglimenti, nonostante i mille tour d’addio, nonostante le mille “My generation” cantate da un alcolizzato cinquantenne, nonostante il suo fratello, amico e nemico Keith Moon se ne sia andato prima di lui, facendolo sentire come il vincitore di una perversa scommessa fatta per vedere chi sarebbe sopravvissuto più a lungo. “Fish&chips” racconta i sogni e gli incubi ricorrenti di un uomo dalla vita privata frantumata e ricostruita, fatta a pezzi da droghe e alcol, rimessa insieme dall’amore e dalla capacità di saper comprendere delle persone che lo circondano. Già perché lui, Townshend, in questo libro – scritto in buona parte tra il 1979 e il 1984 – sembra uno abituato a piangere ogni notte, a vivere il sogno come un desiderio e la realtà come un terribile, inadeguato equivoco, in cui dialoghi, comportamenti, eccessi appaiono come i rigonfiamenti di una condotta distorta dall’alcol o dalla lucida consapevolezza di essere per gli altri qualcosa di molto diverso da ciò che si è per se stessi. E, soprattutto, sembra uno destinato a essere e a rimanere così. Perché Townshend è stato – ed è tuttora – il più perdente dei vincitori, con quella faccia ora folle ora incommensurabilmente triste, capace di roteare la sua chitarra senza dare scampo ad un singolo spettatore oppure crollare di schianto nello psicodramma di uno psicoderelitto. “Fish&chips” mette insieme ricordi d’infanzia, visioni oniriche, sudori freddi e insonnie notturne, stralci di vita da rockstar ma soprattutto la voglia disperata di espressione e comunicazione con gli altri, che continuamente deraglia in qualcosa di altro. E’ la voglia di essere amato, in fondo, la stessa che muove – in altri versi, verso altri percorsi – dal sogno postbellico di Roger Waters, e che anche in Townshend ha inizio su una assolata spiaggia inglese, dove giocava un mattino mentre i suoi cavalcavano lungo il litorale: «Quasi fossero usciti a cavallo dal mare per raggiungermi su per le dune dov’ero a giocare, avevano spezzato l’incantesimo della mia solitudine. Adesso sapevo che cosa stavo aspettando, cosa mi mancava, ma rimasero con me solo un minuto e poi se ne andarono, galoppando via di nuovo, ridendo e salutandomi con la mano. E’ il mio primo ricordo. Una volta, quando ne parlai a mia madre più avanti negli anni, cercando di esprimere tutta la profondità delle mie emozioni di bambino, mi rispose che mi stavo sbagliando. La sola volta che eravamo stati tutti insieme sulle dune a Filey, io avevo soltanto un anno e un mese. Ma io me ne ricordo, e da quel momento non ho mai avuto voglia di montare a cavallo».

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