Charles Mingus - PEGGIO DI UN BASTARDO - la recensione
Recensione del 12 mag 1999
E’ la autobiografia in versione romanzata della vita di Charles Mingus, in una parola il contrabbasso del jazz. Scritta a quattro mani con l’amico Nel King, “Peggio di un bastardo” racconta la storia dell’uomo e del musicista Mingus, fermandosi maggiormente sulla sua vicenda personale e tenendo volutamente in secondo piano la musica, che avrebbe dovuto costituire il soggetto preferenziale di una seconda parte mai ultimata. Così anche i rapporti e le frequentazioni di Mingus con altri musicisti (Davis, Navarro, Waller) vengono lette e raccontate sotto il versante personale e poco tempo si perde su descrizioni accademiche o tecniche relative alla musica. Piuttosto, “Peggio di un bastardo” è un flusso inarrestabile di emozioni, scritto e tradotto rendendo al massimo la dimensione ‘parlata’ del libro: non c’è pagina che non succeda qualcosa, non c’è pagina in cui non venga detta qualcosa che farebbe piacere ricordarsi ogni tanto. Se la partenza del libro, incentrata sull'infanzia di Mingus e sul suo colorito ‘bastardo’ – metà bianco e metà nero – che lo rendeva inviso tanto agli afromericani che ai wasp, relegandolo come sicura compagnia di cinesi e altri emarginati, affronta in qualche modo una problematica comune ad altre storie, è con lo snodarsi del racconto che la personalità di Mingus emerge in tutto il suo spessore, e non solo dal punto di vista della sua instancabile frenesia sessuale. Mingus aveva fede e forza di volontà da piegare ai suoi voleri un’intera orchestra, credeva nella comunicazione dei pensieri, nel non detto e nell’energia che la mente poteva sprigionare in armonia con le leggi dell’universo. In questo senso era vicino a quanto un artista come John Coltrane avrebbe poi cercato di dimostrare con la sua musica, e a quanto spesso hanno sentito grandi jazzisti come Davis e Parker. “Peggio di un bastardo” non è proprio un libro sul jazz, ma è un libro jazz, per come è scritto e per come va letto.