Tra dune, cactus e serpenti a sonagli, un tipo ruvido come Billy Gibbons non può che sentirsi a proprio agio. Al terzo album da solista, “Hardware”, il barbutissimo cantante e chitarrista dei texani ZZ Top compone con naturale disinvoltura quell’immaginario desertico e bollente che lui stesso ha contribuito a tracciare negli oltre cinquant’anni di carriera della sua band.
L'elettricità del blues, di cuore e di pancia
Il disco riflette alla perfezione il mondo che fa da cornice alle imprese di Billy, fatto di pistoni luccicanti, donne fatali e quintalate di blues elettrizzante che il Nostro dimostra di amare e padroneggiare come e più delle sue adorate fuoriserie. Così, “Hardware” appare un lavoro tirato e schietto, che il suo stesso autore racconta essere nato dal desiderio di lasciarsi andare alle migliori sensazioni di cuore e di pancia: “Ci siamo rintanati nel deserto per qualche settimana nel bel mezzo della calura estiva, il che già da sé rendeva tutto molto intenso. Per sfogarci abbiamo “fatto del rock”: l’essenza di “Hardware” alla fine è tutta qui. In gran parte è rock aggressivo, ma comunque e sempre pervaso dal mistero sprigionato dal deserto”.
Eppure, anche in mancanza di particolari variazioni sul tema, le dodici tracce messe in piedi da Gibbons insieme al chitarrista Austin Hanks e al batterista Matt Sorum - già nei Cult, Guns n' Roses e Velvet Revolver -, riescono a mantenere per tutto il programma quella combo di stile e vitalità capace di spingere, con due chitarre e una batteria, grinta, mestiere e pure una sana dose di contagiosa esuberanza dura a farsi abbattere.
Tra polvere, jalapeños e tequila
Andando dritto al bersaglio, “Hardware” - il cui titolo è un omaggio al compianto tecnico del suono Joe Hardy, che lavorò con Gibbons e gli ZZ Top fin dai primi anni Ottanta - innesta rapido le marce alte, tanto con la grana spessa del riff di “Lucky card” e “She’s on fire”, quanto con una timbrica ringhiosa e un’esplosiva miscela roots & folk che odora di polvere, jalapeños e parecchi shot di tequila.
In scaletta si mescolano così una vita di euforia, azzardi e filosofia spicciola, da “Spanish fly” e “West coast junkie”, passando per una più meditativa “Vagabond man”, dove il musicista si definisce “Un bugiardo e un ladro, un giocatore d'azzardo e un imbroglione” e una più giocosa “Hey baby, que paso”, cover dei Texas Tornados, che mischia a piacere spagnolo e inglese senza badare troppo alla sintassi. Nella languida “Stackin’ bones”, invece, Gibbons si accompagna alle sorelle Megan e Rebecca Lowell, alias Larkin Poe, in uno sconsolato botta e risposta cui intona la storia di una donna che lascia morire il proprio uomo lungo una strada desolata, mentre nel western disincantato di “Desert high” traccia un imprevedibile e visionario parallelo con il Cohen di “Nevermind”, sparigliando le carte nel raccontare il mito di Gram Parsons e Jim Morrison.
Il suono del deserto
Billy Gibbons, all’alba delle sue 72 primavere, con “Hardware” porta in questo modo a compimento il proprio modello perfetto di rock di frontiera, tostato al sole del Texas e impossibile da scalfire, senza tempo e, soprattutto, senza fronzoli. Grezzo, spontaneo, un po’ sordido, proprio come il titolare del progetto, il disco riesce a quadrare un’epopea cominciata con “La Grange” quanto di cristallizzare, nel gran caldo di uno studio di registrazione perso nel nulla, un sound graffiante e spericolato. Proprio come il deserto.