“Ho il cuore in mano”, canta Bob Mould nell’iniziale “Heart on my sleeve”. Nella sua carriera solista post-Husker Du, ne ha provate di tutte: cantautorato acustico (lo stupendo esordio con “Workbook”, primo album dopo lo scioglimento della band), ritorno al rock, elettronica, una band che ha avuto anche un discreto successo in Inghilterra (gli Sugar), per poi sistemarsi comodo su una sfilza di album forse meno vari, ma decisamente solidi. Questo è il disco più rilevante di questa fase della sua carriera ed anche il più diretto.
Il suono di una vita
Negli ultimi 10 anni, Mould ha girato attorno alla sua identità musicale, con dischi mai meno che dignitosi: forse solo l’ultimo “Sunshine rock” era fin troppo pop-rock per uno che ha sempre fatto dell’introspezione la sua chiave. Però ci stava che ad un certo punto Mould producesse un disco senza troppe sovrastrutture, solare per definizione fin dal titolo.
“Blue hearts” è la reazione uguale e contraria a quel disco, nell’America di Trump: un album altrettanto diretto, ma scuro, quasi punk: un riassunto della sua carriera con riferimenti diretti ai suoi esordu, con le chitarre violente e le canzoni veloci (14 in 36 minuti, una sola sopra i 3’ e diverse sotto i 2’). Canzoni che spesso iniziano in medias res, sfumate all’inizio e una in fila all'altra come una sequenza di pugni da un pugile, mentra la voce è sepolta nel mix, ben indietro rispetto alle chitarre. C’è qualche acustica, qua e là (la 12 corde “pestata” è un’altro dei suono classici di Mould, già dagli anni ’80); ma in “Forest of Rain” si parte così e si finisce lì, al rock, anzi, al punk-rock.
La rabbia di una vita
E poi ci sono i testi “I never thought I'd see this bullshit again/To come of age in the '80s was bad enough/We were marginalized and demonized/I watched a lot of my generation die”, canta Mould nel primo brano, "American Crisis", il più esplicito di tutti,. Il riferimento è all’America omofoba, razzista e perbenista di Reagan, martoriata dall’AIDS (e perfettamente raccontata da Lou Reed in “New York”), dove sono nate le radici di quella attuale. Un pugno nello stomaco, la dimostrazione che il rock di cose da dire ne ha ancora, eccome.
La canzone imperdibile
La finale “The ocean”, che parte come una tranquilla e finisce in un mare di feedback, riassumendo alla perfezione il percorso dell’album