Massimo Zamboni viaggia nel tempo. Riavvolge il nastro della sua vita, cerca le radici di quello che è e prova a rendere solido il presente, scrivendone la colonna sonora. Dopo il simbolico ed evocativo ritorno nella Berlino dei primi anni ’80 del precedente “Sonata a Kreuzberg”, quella Berlino che vide la nascita del sodalizio con Giovanni Lindo Ferretti, l’artista emiliano si rituffa in una terra magica, dal fascino ancestrale. “La macchia mongolica”, uscito per Universal, a oltre venti anni di distanza, conduce il cofondatore prima dei CCCP e poi dei CSI in quella Mongolia che aveva visitato insieme a Giovanni Lindo Ferretti e che aveva ispirato il terzo e ultimo disco dei CSI, “Tabula Rasa Elettrificata”, uno dei grandi capolavori del rock italiano uscito nel 1997. Una terra mistica, resa immortale dalle gesta di Gengis Khan, attraversata da Marco Polo, conquistata dalla Russia sovietica e capace di mostrare l’essenza primaria della vita, quella che i CSI riuscirono a fotografare con brani come “Bolormaa”. C’è qualche cosa di più che spinge Zamboni a guardarsi indietro per capire l’oggi. In quella terra aveva scoperto, per la prima volta nella sua vita, il desiderio di avere un figlio: Caterina nascerà due anni dopo quel primo viaggio, con una macchia inequivocabile: un piccolo livido destinato a scomparire nel tempo, la cosiddetta “macchia mongolica”. Compiuti i diciotto anni, Caterina vuole tornare in Mongolia, come se volesse riaprire la porta di casa. E così Zamboni si trova a fluttuare fra passato, presente e futuro. È questo il cuore pulsante delle tredici tracce che compongono il progetto, quasi interamente strumentali, da lui composte e suonate insieme a Cristiano Roversi e a Simone Beneventi. Ma l’idea non si esaurisce qui: esce anche un libro, scritto insieme alla figlia Caterina ed edito da Baldini e Castoldi. Una lettura che si sposa con le canzoni.
L’album si muove su linee di chitarra dolci o più dense a seconda delle canzoni, che si sovrappongono e si mischiano a intermezzi quasi mistici da cui emergono archi, basso, suoni di metalli, campane, elettronica e natura. La prima parte del disco sembra proprio l’inizio di un viaggio, di un rito. Poi ci si ritrova nei deserti, fra le case sperdute in terre dove l’uomo resiste e vive a contatto con un mondo che viaggia in un tempo sospeso, lontanissimo dalla frenesia della nostra quotidianità. È un ascolto contemplativo quello che ci spinge a compiere Zamboni. “Djinn” mette in musica quella sospensione, mentre “Sugli Altaj” rievoca spiriti che congiungono la dimensione dei vivi con quella dei morti. In “Lunghe d’ombre”, l’unico pezzo cantato del disco, le parole raccontano il vero significato di questa avventura: “Vivere comprende la rinuncia a conservare”.