A buttare benzina sul fuoco basta una buona occasione. O un semplice fiammifero, come quello sulla copertina del nuovo album, privo di titolo, dei provocatori Rammstein. Dieci anni dopo l’ultima prova in studio - il precedente “Liebe Ist Für Alle Da” è datato 2009 - la moderna fiammata del gruppo di Berlino rappresenta una feroce e accorata dichiarazione di intenti sulla propria identità, tedesca e, al solito, spietatamente enfatica.
Il tema di “Deutschland”, che apre il disco con il suo incedere marziale, mescola incastri sonori serrati e una potente dose di epica teutonica, arrivando a contare la bellezza di oltre cinquanta milioni di visualizzazioni su YouTube con un video-cortometraggio di quasi dieci minuti, è ciò che meglio caratterizza l’ultima essenza di Till Lindemann e soci. Il classico “tanz metall” della band, sospeso tra furore industrial e linee ritmiche ballabili, affronta il senso di appartenenza alla propria nazione, narrando alti e bassi del motore economico della grande Europa secondo una saga millenaria e controversa, dall’arrivo dei Romani fino alle barbarie di un futuro spietato e alienante.
Il mito della Germania è così celebrato dal sestetto in una storia di contrasti basata su un rapporto carnale di amore e odio con la madre patria, scandendo parole dure che solo l’idioma tedesco può rendere al meglio - “Il mio cuore in fiamme / Voglio amarti e maledirti”, e ancora, parafrasando il proprio inno nazionale, il carico grosso di “Deutschland über alles”, ovvero “Germania sopra a tutti”. Eppure nei ritrovati Rammstein, prevale soprattutto la voglia di mescolare il proprio sound con trovate sempre più plateali, ai limiti di un’ostentazione kitsch che offre loro il fianco per lanciarsi in soluzioni ficcanti e moderne forme di claustrofobie dagli inconsueti tocchi melodici. Le tastiere di Christian "Doktor Flake" Lorenz hanno qui un ruolo centrale, fornendo le dinamiche necessarie ai declami del cantante, sempre più attore e maschera ghignante della sua compagine. Tra autoreferenzialità, sesso, inquietudini e una buona dose di ironia, gli undici brani del disco girano intorno a muri elettronici/elettrici compatti e ritornelli-tormentone dalla forte vocazione radiofonica che riescono a catturare l’ascolto con compiaciuto mestiere.
In questo modo, l'inno martellante di “Radio” e lo space sound anni Novanta di “Weit weg” riflettono l'attuale sostanza della corazzata tedesca. Tra gli attacchi feroci dal sapore apocalittico di "Zeig dich" e la malsana delicatezza di "Diamant", non smente una vena di pungente sarcasmo il divertissement di “Ausländer” - una babele di lingue che intona frasi come “Ciao ragazza”, “Mi amor, mon chéri” e “Take a chance on me” - e neppure la spietata “Tattoo” in cui emerge il lato più crudo e tagliente del disco. Colpisce invece, come un pugno allo stomaco, il brano "Puppe", col suo miscuglio di riferimenti a malattia, medicine, violenza, rabbia passati ora sotto un inedito slancio drammatico nella voce del leader. L'album senza nome scorre quindi in cassa dritta a pieni giri, lasciando però sul campo di battaglia parte del carisma perverso dei Rammstein, non riuscendo a mantenere alto quel livello di shock mediatico con cui il gruppo ha flirtato a lungo nel corso degli anni. Mancando di questo fascino ambiguo, Till e i suoi si prendono quindi lo spazio per gonfiare i muscoli, anche quando, con brutale irruenza, offrono il loro lato più beffardo. Non poteva essere diversamente, volendo raccontare di una società sempre più alle prese con la ricerca della propria definizione.