La grossa grassa famiglia bianca giunge al traguardo del terzo album. E, a dirla tutta, non sembra convincere al 100%. Già, perché nonostante le lodi della stampa britannica (business as usual: campanilismo senza limitismo), il disco della “rinascita” della formazione sembra avere denti dalla punta arrotondata, poco mordente, zero “cazzimma” come direbbero a sud. E un po’ troppe ambizioni.
Certo, dal precedente lavoro del 2016 molte cose sono cambiate. In tre anni i Fat White Family hanno affrontato alcune traversie non da poco, fra cui la lotta contro la dipendenza da eroina di alcuni membri, il distacco e poi il rientro del deus ex machina Saul Adamczewski (chitarre e voce), oltre al fallout causato dal controverso “Songs For Our Mothers”, in cui flirtavano con un immaginario tabù che meticciava provocatorie immagini da terzo reich e cultura della siringa – due cose che fanno tanto rock maudit, ma sono anche garanzia di alienazione delle simpatie di grosse fette di pubblico, per la loro natura ansiogena.
Con “Serf’s Up” la band pare cercare una strada di conciliazione, quasi a volersi – un po’ democristianamente – riappacificare con tutti, abbracciando un post punk che clona certe pulsioni sonore databili fra il 1979 e il 1981. Per cui diciamo definitivamente addio alle atmosfere maudit, fra il punk, il pop e lo psychobilly malato stile Alan Vega del primo album (e lo scrivo sospirando scontento…). Ma diciamolo anche al mood esoterico, con tocchi psych, kraut, industrial e dark di “Songs For Our mothers”.
Quindi?
Quindi ecco un disco di post punk/new wave a tinte elettroniche che se da molti è stato salutato come un lavoro maturo e compiuto, francamente fa un po’ sbadigliare. Perché non necessariamente smussare gli angoli equivale a evolversi in maniera interessante a livello sonoro. Anzi. Stavolta sembra che, come si dice in gergo, ai FWF sia slittata la frizione e si siano ritrovati a sfornare un album un po’ troppo pastorizzato e asettico, rispetto alle deliziose idiosincrasie dei primi due.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare che non è giusto insistere in quella che alcuni hanno battezzato la sindrome di “era meglio il primo album” (in forme più gravi si tramuta in sindrome di “era meglio il demo”). Però non è nemmeno onesto accettare senza battere ciglio una bonifica, un condono tombale, una piallata così ruffiana al sound della band. A volte è meglio non maturare, se si deve finire a citare e ricitare gente come New Order, Joy Division, Pet Shop Boys e compagnia anni Ottanta. Si stava meglio quando i Fat White Family erano una drug band with a rock problem. Sì.