Un gran disco di Neneh Cherry contro la "Broken politics"

Torna Neneh Cherry con un disco intenso e profondamente politico con la produzione praticamente perfetta di Four Tet. Un disco da ascoltare e ascoltare ancora.

Recensione del 21 ott 2018 a cura di Michele Boroni

Voto 9/10

La condotta della carriera di Neneh Cherry meriterebbe già di per sé un articolo a parte: la gavetta post-punk nei primi anni 80 con Rip Rig+Panic seguito dal successo con l'r&b e hip-hop di “Raw like sushi” e “Man”, il conscious trip-hop di “Homebrew”, la world music di “7 seconds” e poi i lunghi silenzi, anch'essi profondi e densi di significato, i progetti jazz (CirKus, The Cherry Thing) fino all’uscita di “Blank Project” quattro anni fa.

Neneh Cherry, cinquantaquattrenne afro-svedese, voce di rara espressività capace di note dolci e ruvidezze, passando dalle atmosfere soul al free jazz, dalla forte attitudine sperimentale ma anche con la voglia di lasciare una traccia con la musica e con i propri testi.

Questo “Broken Politics” scava un solco ancora più profondo, presentandosi come una sorta di biografia in musica, in cui racconta la “politica guasta” di questi tempi e prova a dire la sua sui problemi di oggi (immigrazione, violenza, indifferenza, l'abuso delle armi, diritti femminili) che spesso non riesce a comprendere pienamente.

Per fare questo si fa aiutare dal suo partner Cameron McVey e da Kieran Hebden, noto ai più come Four Tet, che cura la produzione, replicando il felice sodalizio di “Blank Project”. Tuttavia i due dischi sono molto diversi: “Blank Project” era dark, ruvido e minimale, “Broken Politics” è più amalgamato, magari meno diretto, legando l'elettronica a molti strumenti acustici (arpe, flauti, kora..) che entra dentro lentamente, ma regala un disco profondo e dalla produzione mirabile.

“Now everything in focus, I can see clearly, [...] the clarity hurts” sono le parole che aprono “Fallen Leaves” un pezzo downtempo, avvolgente e bellissimo con un pianoforte alla Sakamoto. Segue poi “Kong” co-prodotta da Robert “3D” Del Naja dei Massive Attack e siamo subito nel territorio dub/trip-hop tra il beat di “Kamakoma” e il sound ipnotico di “Protection” per una canzone che parla di accoglienza e inclusione con riferimenti diretti all'attualità (“Every nation seeks its friends in France and Italy / And all across the seven seas”). Ogni canzone è un piccolo tassello di un discorso politico, ma anche dal punto di vista musicale regala emozioni e sorprese: c'è il campionamento del beat di Steve Gadd di “50 way to leave your lovers” di Paul Simon ad accompagnare il rap jazzato di “Faster than the truth”, ma anche un sample del 1969 di Ornette Coleman insieme al padre Don in “Natural skin deep” tra sirene rave e steel drums. C'è poi l'intimismo e il minimalismo di “Synchronised Devotion” (“My name is Neneh, march tenth, water sign / it’s my politics living in the slow jam”), il downtempo da club “Shot Gun Shack” e la commistione di fiati e ritmi tribali di “Slow Release”. Per poi concludere con “Soldier”, una sorta di “chiamata alle armi”per affrontare le cose insieme per poter andare avanti concldendo con “Gotta make something for / Something, something, something, some”.

Troverete “Broken Politics” in molte classifiche dei migliori dischi dell'anno.

 

Tracklist

01. Fallen Leaves (03:19)
02. Kong (04:24)
03. Poem Daddy (00:48)
04. Synchronised Devotion (04:07)
05. Deep Vein Thrombosis (04:31)
06. Faster Than the Truth (03:47)
07. Natural Skin Deep (04:41)
08. Shot Gun Shack (03:57)
09. Black Monday (04:42)
10. Cheap Breakfast Special (01:09)
11. Slow Release (05:42)
12. Soldier (04:54)

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