Da che la banda è tornata assieme – dopo essersi presa una lunga pausa e avere deposto gli strumenti nel 2003 - “The Blue Hour” è il terzo album che da alle stampe e segue, in linea cronologica, “Night Thoughts” (2016) e, ancora prima, “Bloodsports” (2013), quello che fu il disco del ritorno. Due buoni album che non hanno deluso i fan più dediti alla causa, ma che quasi certamente non hanno portato nuovi adepti a seguire il loro culto. Sia chiaro che questo non in alcun modo un demerito, piuttosto sta nell’ordine delle cose, è un qualcosa che ha a che fare con lo scorrere del tempo. Non si può mettere in dubbio, infatti, che gli Suede di Brett Anderson si meritano a pieno titolo più di qualche riga nella enorme storia del pop-rock e che hanno la primogenitura di quella bella stagione, laggiù negli anni novanta, chiamata brit-pop che ha visto quali campioni e alfieri più celebrati i Blur di Damon Albarn e gli Oasis dei fratelli Gallagher (in rigoroso ordine alfabetico).
Da subito una rassicurazione per chi ha a cuore le sorti della band britannica: “The Blue Hour” – che è prodotto da Alan Moulder - non sfigura affatto nella loro discografia e non infanga la loro importante storia musicale che è ormai prossima a festeggiare i trenta anni. Questo nuovo disco, come già il precedente “Night Thoughts”, è quello che si definisce un concept album: ovvero ogni canzone è espressione di un tema generale ed è collegata l’una con l’altra. L’album ha più di un punto di contatto con “Coal Black Mornings”, la recente autobiografia scritta da Brett Anderson che lui stesso definisce ‘un libro sul fallimento’. Ma ciò non deve sorprendere più di molto quanti masticano di cose vicine alla band, non particolarmente nota per celebrare la gioia.
“The Blue Hour” non ha un impatto immediato. Si sviluppa in lunghezza per oltre cinquanta minuti e non mancano attimi in cui la fatica prende il sopravvento, però la curiosità di scoprire cosa segue non viene mai meno. E quindi, c’è voluto più di un ascolto per sintonizzarsi completamente su frequenze che possono apparire in qualche passaggio troppo pompose e sinfoniche (“All the Wild Places”, ad esempio) – tendenza questa favorita dalla collaborazione, pressoché in ogni brano, con l’Orchestra Filarmonica di Praga e dagli arrangiamenti curati dal compositore di colonne sonore Craig Armstrong (“The Invisibles”).
La band ha così spiegato l’album: "L'Ora Blu è quel momento del giorno in cui la luce si affievolisce e la notte si avvicina. Le canzoni introducono un racconto complesso senza mai rivelarlo o spiegarlo del tutto. Ma, come per ogni album degli Suede, tutto ruota attorno al songwriting. La band, la passione e la musica: questa è la nostra 'The Blue Hour'". Aldilà della retorica da comunicato stampa di questa dichiarazione, porre l’accento sul songwriting è cosa buona e giusta perché è lì che viene marcata la differenza ed è lì che l’album si guadagna il nostro favore. Buone canzoni, su tutte si merita la lode “Life is Golden”.
Gli Suede con “The Blue Hour” dimostrano di essere una band che non è ancora giunta a fine corsa, di essere viva e vegeta e di avere ancora la capacità e la voglia di provare nuove strade e di spingersi in campi poco esplorati in precedenza dimostrando così di non voler scendere a compromessi con la loro integrità artistica e di non voler contare baggianate ai loro fan. “The Blue Hour” non è un esercizio di routine. Questa si chiama vitalità e non è da tutti dopo una lunga carriera come la loro. La band rispetta se stessa, la band rispetta chi la segue.