di Giovanni Aragona
Un nome nato quasi per gioco, un matrimonio con il musicista canadese Slim Twin, un continuo peregrinare tra Canada e Stati Uniti, e nel mezzo tanti concerti e tanta gavetta. In queste tappe, più o meno dieci anni di carriera della trentatreenne Meghan Remy, meglio conosciuta con il soprannome di U.S. Girls, giunta al suo sesto album in studio, il secondo dopo “Half Free” del 2015 targato nuovamente 4AD. Sensibile, romantica, combattiva e portatrice sana di un pop sperimentale (che aveva già entusiasmato pubblico e critica nel 2015), ritorna in pista realizzando il lavoro più completo della sua carriera, infilando undici canzoni potentissime e di protesta, che narrano abusi e soprusi nei confronti del mondo femminile da parte di una sempre più potente lobby maschile e maschilista. Risulterà essere in definitiva, un attento sguardo d’insieme rivolto al mondo dell’emarginazione e di chi, in silenzio, soffre. E’ questo il punto di partenza che ha mosso l’anima e la sensibilità di Meghan, è l’urlo di una semplice cittadina preoccupata per le sorti dello stato che l’appartiene. A differenza dei lavori passati, l’utilizzo di sintetizzatori non è massiccio, e lo spazio a chitarre, bassi e batteria è più importante vista la presenza in studio del collettivo Cosmic Range. Un album che suona bene e che riesce a condensare, senza annoiare, folate di rock n roll, pop ’80, accattivanti sonorità r&b strizzando l’occhio al mondo sonoro di inizio ‘80 dei Blondie.
Si potrebbe legittimamente pensare a delle canzoni costruite su tappeti sonori molto simili tra loro, ma in questo album, difficilmente scoverete una canzone simile ad un’altra. Il risultato saranno 37 minuti di potentissimi testi e di suoni ben dosati e riusciti. La sensazione è tangibile già dall’apertura affidata a "Velvet For Sale”, un beffardo suono sensuale che viene abbinato ad un testo che racconta la storia di una donna pronta ad uccidere il suo ex feroce marito. Si muove sagacemente la cantautrice, imbastendo una scaletta perfetta: non si fa in tempo a metabolizzare la bellissima ed orecchiabile “Rosebund” che ci si ritrova immediatamente catapultati nella trance sintetica di "Incidental Boogie”, una lezione alt- pop che ci ha ricordato il meglio della discografia dei Primal Scream. Qualora invece servisse del sano movimento al vostro fisico, vi consigliamo spassionatamente di rifugiarvi nella danzereccia “M.A.H”. “In a Poem Unlimited” segna una nuova epoca compositiva al femminile, e inserisce Meghan nell’olimpo delle migliori cantautrici di questa generazione. L’utlizzo quasi spigoloso di elettricità e rumori, come nel finale di “Time”, conferisce un senso più profondo all’intero album. Un disco che ha molto da dire, un lavoro ben orchestrato per questa artista diventata meritatamente “talento". Se ‘Il Disagio della Civiltà’ di Freud fosse musica, questo sarebbe il suo disco.