Paradise Lost - HOST - la recensione

Recensione del 12 giu 1999

Fate sentire questo disco all’ascoltatore medio di musica, quello che ne sa meno di un fine conoscitore ma più dell’ascoltatore distratto. Non avrà dubbi: “I Depeche Mode!” Eh, siamo lì. Il metallo rovente degli inizi è andato via via modellandosi, e grazie all’opera dei siderurgi di Halifax ha finito con l’incontrare la fredda (trito luogo comune) elettronica. Il che inevitabilmente li renderà intollerabili alla maggior parte dei loro fans degli esordi. La convergenza avviene nel nome del gotico, e anche, perché no, del pop. Nessuno scandalo. Perché “Host” è un buon disco, a prescindere dai generi: se questi umori sconsolati albergano nei cuori dei Paradise Lost, perché dovrebbero continuare a schitarrare solo per la bella faccia dei duri e puri? Un altro gruppo che scende dalla barca del metal, che fa acqua come dimostrano gli scarsi responsi ottenuti da due nobili tentativi di tenerla a galla: i dischi di Bruce Dickinson e Sepultura “sepolti” sì, ma nei magazzini, dal verbo dei Korn: come America comanda, pubblico risponde. Il problema specifico dei Paradise Lost non sta nell’ispirazione, che c’è, ma nel suono: se giocano in questo campo, dimostrano troppo chiaramente di non essere i migliori. I PL ci hanno assicurato personalmente di detestare Martin Gore e soci, ma resta il fatto che la splendida “Nothing sacred” è fin dal titolo terribilmente Depechiano; e contribuisce a mostrare quanto i Mode abbiano piantato bandierine in ogni angolo del pianeta techno-pop. Ultimamente non facciamo che vedere come il diapason di musici di tutt’altra provenienza (facciamo il primo nome che ci viene in mente, distante mille significative miglia dai Paradise Lost: i Madreblu. Un altro nome? I cloni Medusa’s Spite) si ritrova a vibrare su quelle stesse, oscure frequenze.


Tracklist:

So much is lost
In all honesty
Harbour
Ordinary days
It’s too late
Permanent solution
Behind the grey
Wreck
Made the same
Deep
Year of summer
Host

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