Marco Parente - TESTA, DI' CUORE - la recensione
Recensione del 24 feb 2000
Il primo album di Marco Parente, “Eppur non basta”, aveva raccolto una
notevole collezione di elogi da parte della stampa specializzata italiana,
grazie a canzoni di qualità insolita, sorrette da arrangiamenti preziosi e
originali, e interpretate da una voce dal timbro dolce e appassionato.
Insomma, uno di quei dischi che spinge all’uso (e all’abuso) di parole come
‘poesia’, ‘arte’ e ‘personaggio di culto’. “Testa, dì cuore” conferma che
non si trattava di un fuoco di paglia, e Parente è un credibile esponente di
quell’area della musica italiana in bilico fra canzone d’autore e rock,
frequentata da gente come La Crus e Cristina Donà, presente qui in “Senza
voltarsi”. Si avverte chiaramente l’ambizione di volare alto, di
confrontarsi con temi impegnativi (“Parola seria ma non troppo è Dio”,
esordisce “Karma Parente”), di esprimersi con la massima intensità possibile
restando legato a un mondo emotivo intimo e personale. Come nel lavoro
d’esordio, non ci sono debiti musicali evidenti: aleggia a tratti il nobile
spettro di Jeff Buckley (nel brano che dà il titolo all’album), e si può
cogliere qualche strascico delle passate avventure di Parente con i CSI
nella trama pianistica di “La guarigione”, ma si tratta di echi tutto
sommato lontani. Parente ha imboccato una strada sua, ed è in possesso di
buone canzoni; può apparire occasionalmente fin troppo ambizioso, ma è un
rischio inevitabile quando si viaggia sul confine tra canzone e poesia.
Lasciamolo lavorare, magari senza inondarlo di superlativi, augurandogli di
avere un pubblico abbastanza ampio da evitargli gli stenti economici
solitamente riservati agli eroi di culto, e abbastanza ristretto da
lasciarlo fuori dal tritacarne della musica di più largo consumo. I buoni
risultati non tarderanno a farsi vedere.