Pat Metheny - TRIO 99>00 - la recensione
Recensione del 17 feb 2000
Antefatto: Pat Metheny finisce il suo tour, uno dei tanti. E’ a Istanbul, Turchia, e, come sempre accade, la sua agenda è pianificata senza soste. Soltanto due giorni e dovrà essere a New York, per registrare un album in trio con il bassista Larry Grenadier e il batterista Bill Stewart. Chiunque telefonerebbe per disdire l’impegno, adducendo stanchezza, nausea, voglia di girarsi la Turchia. “Scusate ragazzi, non se ne fa niente...magari tra un po’...”, o una cosa simile. E invece lui cosa fa? Si chiude in stanza e in due giorni tira giù cinque composizioni – le chiama umilmente ‘tunes’, a volerne sottolineare l’aspetto appena accennato di progressioni armoniche o di motivetti, e sottolineando il fatto che con il trio potrebbero suonarle per 300 sere di fila in 300 modi diversi, rendendole irriconoscibili – che, insieme ad un paio di cover e a tre ripescaggi del suo passato vanno a costituire l’ossatura di questo album. Dopodiché, va in sala ad agosto scorso e lo registra. Ora, di fronte ad uno così, pensi quasi sempre una sola cosa: ma come fa??? Ma come può, uno che ha in curriculum ormai più di 20 album tra Pat Metheny Group, carriera solista e colonne sonore varie, continuare a scrivere e a fare album di questa qualità? E’ un mistero, un qualcosa che è spiegabile soltanto con il talento che il chitarrista statunitense possiede da sempre e che lo ha reso probabilmente uno dei migliori jazzisti melodici del presente. Intere generazioni di chitarristi si ispirano a lui, mentre Pat, incallito, omaggia i suoi maestri: Ornette Coleman, prima, Wayne Shorter e John Coltrane in questo album. Non è un caso che tutti e tre suonino strumenti a fiato, visto che una tromba è stata anche il suo primo strumento, e che da sempre Metheny dichiara di ispirarsi a quel suono e a quel modo di costruire le frasi per mettere in piedi i suoi assoli. Fattosta che “Trio 99-00” è un album splendido, impreziosito dalla cover di “Giant steps” di Coltrane che qui parla un linguaggio in puro Metheny-style. Stesso discorso per l’oscuro brano di Shorter “Capricorn”, che Metheny non ricorda di aver ascoltato in altre versioni, mentre i tre brani che Metheny ripesca dal passato – “Just like the day” nasce come un brano suonato spesso live e dedicato all’Italia, il posto in cui Metheny ama di più esibirsi in assoluto, mentre “We had a sister” arriva dal primo album di Joshua Redman, per il quale Pat aveva firmato questa composizione, e “Travels” è addirittura la title-track dello storico doppio dal vivo del Pat Metheny Group, riportata ad un’inedita dimensione di studio – dimostrano per l’ennesima volta il grande talento compositivo di questo artista. Più tendenti allo standard blues, invece, sono i brani scritti appositamente per l’occasione, ma è di certo una cosa voluta, perché forse è proprio in questi brani che si scatena maggiormente l’interplay tra chitarra e ritmica, spesso spinto verso un linguaggio articolato e intenso. A chi non piace Metheny, naturalmente, questo disco non piacerà, ma per i suoi numerosi fans italiani si tratta di sicuro di un altro gradito regalo dopo la splendida colonna sonora di “Map of the world”.