«THE GREAT ELECTRONIC SWINDLE
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Bloody Beetroots»
la recensione di Rockol
L'urlo di Bloody Beetroots: "The Great Electronic Swindle"
Nel nuovo "The great electronic swindle" l'elettronica incontra il rock ed è uno spettacolo popolare dallo stile gridato e appariscente. “Mi sono guardato in giro e mi sono chiesto: c’è ancora qualcuno che grida o tocca a me farlo?"
“Quando ho ascoltato i test pressing del doppio vinile ero preoccupato”, ci ha detto Sir Bob Cornelius Rifo. “Mentre appoggiavo la puntina me la sono vista brutta, mi sono detto: oh cazzo, adesso va tutto affanculo perché l’ho masterizzato troppo forte. E invece, dai, mi son salvato”. Basta questa frase per raccontare uno dei tratti fondamentali del nuovo album del progetto Bloody Beetroots. “The great electronic swindle” è un attacco incessante alle nostre orecchie. Perché nasce così, dall’idea di prendere il rock anni ’70 e ’80 e trasformarlo in uno spettacolo elettronico in cui è tutto “mostruoso”: i timbri, l’espressività, le parti vocali. Un circo electro rock sparato a volume 10.
Nato dopo un periodo di crisi personale di Rifo e di ripensamento del progetto Bloody Beetroots (“Aveva assunto una forma frivola, non riuscivo più a esprimermi”), “The great electronic swindle” annuncia fin dal titolo, che cita quello del celebre film dei Sex Pistols, l’intenzione di dare una scossa alla musica elettronica, che secondo il produttore di Bassano del Grappa s’è trasformata in una grande truffa, e di trasformarla in un spettacolo popolare dallo stile gridato e appariscente – qualcosa che capisca allo stomaco, insomma. “Mi sono guardato in giro e mi sono chiesto: c’è ancora qualcuno che grida o tocca a me farlo?”.
E così, per “gridare”, Rifo ha chiamato i Jet e con loro ha messo assieme “My name is thunder” che si rifà in modo spudorato allo stile degli AC/DC.
Con Perry Farrell dei Jane’s Addiction strizza invece l’occhio ai riff dei Rage Against the Machine e canta di “Pirates, punks & politics”, mentre ad Eric Nally dei Foxy Shazam spetta il compito di mettere qualche urletto alla Michael Jackson nella tamarrissima “Enter the void”. Ci sono anche i Gallows, Anders Friden degli In Flames, il duo delle Deap Vally, Jason Aalon Butler dei Letlive, Jay Buchanan dei Rival Sons, quest’ultimo alle prese con “Nothing but love”, il cui modello al di là della strumentazione utilizzata sono evidentemente i Led Zeppelin. In tutto fanno 17 canzoni (20 con i bonus), 14 delle quali nate da collaborazioni. E avrebbero potuto esserci anche Justin Hawkins dei Darkness e i Wolfmother.
L’idea, insomma, è di prendere il rock un po’ “ignorante” e renderlo più spettacolare attraverso l’elettronica che serve a dare la potenza ritmica e la densità che, secondo Rifo, il rock non avrebbe. Ma non c’è solo questo. Pur essendo caratterizzato dai pezzi più rock, “The great electronic swindle” è un disco piuttosto vario. Greta Svabo Bach torna in due pezzi EDM e qua e là si ascoltano echi di rap, pop anni ’80, dance. C’è anche del buon vecchio kitsch: la passione per il talkbox ha portato Rifo a collaborare con Mr. Talkbox in “Hollywood surf club”. La maggior parte delle collaborazioni nascono da incontri, scambi, amicizie che hanno dato origini a testi in cui, dice Rifo, sono finiti gli ultimi quattro anni della sua vita, dalle storie d’amore al rapporto con Los Angeles.
L’effetto, al di là della bella copertina firmata da Tanino Liberatore dai contorni volutamente indefiniti, è fumettistico. Rifo prende i luoghi comuni del rock e li porta alle estreme conseguenze, fermandosi poco prima di sconfinare nella parodia. Trasforma l’euforia suggerita da rock ed elettronica in gesti sonori appariscenti, potenti, iper-pop. Una volta accettato questo paradigma e l’idea di ascoltare nello stesso album talkbox e grida hardcore-punk, “The great electronic swindle” diventa un disco divertente. Magari non profondo, a volte volutamente grossolano e forse un po’ lungo, però decisamente divertente.
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