“Nothing left alive, but a pair of glassy eyes” cantava Iggy in una delle ballad più feroci degli Stooges (“Gimme Danger”). Ed è un po’ la medesima sensazione che abbiamo provato tutti noi, amanti del rock più sanguigno, alla notizia della morte di Lemmy. Occhi vitrei e feeling di assenza di vita. A Motörhead ovviamente sciolti, quindi, vedere un nuovo disco con il loro nome impresso è al contempo bello e triste… bello perché la leggenda continua, triste perché sappiamo che ormai si tratterà solo più di materiale d’archivio, ristampe e/o raschiature più o meno succose di fondo di barile.
Un album di sole cover come questo potrebbe far pensare, appunto, alla raschiatura del suddetto fondo, ma fortunatamente il risultato finale è degno del nome della band e della fama di Lemmy. Certo è un disco “for fun” – per quanto non sia molto fun il background appena descritto, cioè Lemmy non c’è più e nemmeno la sua band – e come tale va preso: questi sono i Motörhead che, come hanno sempre fatto, si divertono a incidere pezzi di altri, stritolandoli a modo loro e bombardandoli con la potenza di fuoco del sound detonante che li ha sempre contraddistinti.
La selezione – che è comunque ristretta: Lemmy e i suoi hanno inciso diversi altri brani altrui nella loro carriera, a partire dalla devastante “Leaving Here” dei Birds nel 1977, purtroppo lasciata fuori da questa uscita – è piuttosto variegata, anche se il raggio d’azione, fatti salvi tre soli episodi, resta quello dell’ambito metal, hard rock e punk.
È così che possiamo ascoltare rivisitazioni di classici dei colleghi Judas Priest (una “Breaking The Law” che, piazzata in apertura di disco, non convince al 100%...), Ozzy Osbourne (“Hellraiser”), Metallica (Lemmy e soci rendono ancora più devastante il classicone “Whiplash”, customizzandolo a dovere) e Rainbow, fra gli altri.
Sul versante punk, la band conferma il proprio amore per i finti fratellini newyorchesi Ramones, proponendo una “Rockaway Beach” quasi fedele all’originale, non fosse per la voce di Lemmy così diversa da quella di Joey; e poi una scontata, ma potente, “Anarchy In The UK”, dei padrini del punk made in England Sex Pistols, piuttosto filologica anche questa.
A livello di sonorità “fuori genere”, invece, i Motörhead giocano sul sicuro con ben due pezzi dei Rollins Stones, due megaclassici come “Jumping Jack Flash” e “Sympathy For The Devil”, rese onestamente, ma senza veri picchi di interesse… sono più curiosità che altro, compitini ben eseguiti. E poi piazzano il vero colpo di classe, che arriva, invece, con una inaspettata “Heroes” del Duca Bianco, che nelle mani della band diviene monolitica e suggestiva al tempo stesso: capace di evocare le atmosfere berlinesi di Bowie, ma con una rabbia e un’energia aliene alla versione che tutti conosciamo. Se vogliamo, questa canzone vale l’intero album, che – come già detto – è comunque buono e divertente.
Unico dubbio: se i Motörhead esistessero ancora e Lemmy fosse fra noi, sarebbe uscito ugualmente? Propenderei per un sonoro “no”, ma tant’è.