Sesta prova in studio per la band di Des Moines fondata, nel 1992, fra gli altri da Corey taylor – che sarebbe poi divenuto anche voce dei nu-metaller Slipknot, raccogliendo fama e successo planetari. Non che gli Stone Sour siano una postilla nella storia del rock, chiariamolo… anzi, godono di uno status solido, di molti fan fedeli e di un invidiabile posizionamento, pur restando almeno parzialmente nel cono d’ombra degli Slipknot.
“Hydrograd” (titolo bizzarro, nato da un malinteso: Taylor, infatti, durante uno scalo in Europa, ha letto male un cartello et voilà… ecco il nome del nuovo album) è un buon album sicuramente, in pieno mood rock/hard rock/alt metal – con piccoli tocchi prog metal. Sonorità cristallizzate da qualche parte fra la fine dei Novanta e i primi Duemila, ma molto convincenti, piene di mestiere e di sicurezza nei propri mezzi. La formula è piuttosto semplice, quasi come se la band desiderasse eliminare fronzoli e ambizioni di allargamento degli orizzonti, gettandosi anima e corpo nel flusso del rock al 100%. Quindi, sostanzialmente, al netto di qualche scrollone improvviso, “Hydrograd” è un disco fatto da pezzi costruiti su solidi riff hard rock declinati in tutte le salse e abbinati a una bella performance vocale di Taylor. Energia e melodia, insomma, se vogliamo riassumere in due parole… con qualche ammiccamento a certo AOR/pomp rock non troppo laccato.
Nulla di epocale o rivoluzionario, ma un buon disco resta tale anche se non rompe gli schemi o non inventa qualcosa (ammesso che ci sia, almeno nel rock, ancora da inventare). E l’impressione è ancora più positiva se si pensa che questo è il primo lavoro della band dopo l’uscita, tumultuosa peraltro, del chitarrista e co-fondatore Jim Root, che ha lasciato la nave nel 2013. Il suo sostituto Christian Martucci sembra a proprio agio e ha avuto un ruolo non secondario nel plasmare la personalità del disco, col proprio background fatto sì di metal, ma anche di punk e influenze variegate.
Una bella prova, insomma: musica godibile, molto rock e fruibile al contempo, sempre in bilico fra muscolare esuberanza e orecchiabilità da viaggio sulle highway con la capote aperta, il vento in faccia e un amore selvaggio sul sedile a fianco. Unico neo, a voler essere pignoli, è forse la lunghezza: 15 brani non sono pochi, anche se a onor del vero i 60 minuti abbondanti scorrono piuttosto indolori, senza pesare… diciamo che un paio di brani in meno avrebbero creato il perfetto equilibrio (la semi-country “St. Marie” e “When the Fever Broke” potevano restare a disposizione per qualche b-side, senza che il disco ne soffrisse in alcun modo…).