Conor Oberst e "Salutations": la recensione

Un disco capolavoro, che riarrangia il precedente "Ruminations" con una band guidata dal leggendario Jim Keltner: musica americana al suo meglio

Recensione del 16 mar 2017 a cura di Gianni Sibilla

Voto 9/10

Quando succede, di solito va al contrario. Un artista pubblica un disco, e poi pubblica delle versioni acustiche dei brani. Qualche volta, capita anche che ripubblichi tutto il disco in versione minimale, magari come bonus o versione separata.

Ma Conor Oberst non è un artista normale. È uno dei migliori autori americani dell'ultima generazione, ma i suoi percorsi sono spesso tortuosi, tra Bright Eyes, Mystic Valley Band, Desaparecidos, Monsters of Folk.

L'accoppiata "Ruminations"-"Salutations" è forse uno dei punti più alti della sua carriera, ma non è stato un percorso semplice, neanche questo. "Ruminations" è stato il suo "Nebraska", inciso da solo, in inverno, a casa ad Omaha (Nebraska, appunto), dopo un periodo diffilcile. Un disco musicalmente scarno, poco più che acustico. Una sorta di seduta di psicanalisi in musica.

Pochi mesi e arriva "Salutations", che riprende il progetto originale dell'album, reincidendo le 10 canzoni con una band, con l'aggiunta di altre sette. E, il risultato, se possibile, è ancora meglio: siamo a marzo, e l'anno ci ha già regalato un mezzo capolavoro al mese di Americana: prima Mark Eitzel, poi Ryan Adams, ora questo disco.

L'album è stato inciso con i Felice Brothers come band, e con Jim Keltner come co-produttore. Quest'ultimo, per chi non lo conoscesse, è una leggenda. Da batterista ha suonato con i Maestri, dagli anni '70: era con Joe Cocker e Leon Russell in "Mad dogs & englishmen", ha suonato con tutti i Beatles (tranne McCartney), con Dylan, è l'uomo di fiducia di  Ry Cooder e con John Hiatt era  in quel capolavoro di "Bring the family".

L'insieme Oberst-Keltner-Felice Brothers, e l'aiuto di amici come Jim James (My Morning Jacket), Gillian Welch, Jonathan Wilson, rendono musicalmente "Salutations" una sorta di paradiso del suono americano, in cui si ritrovano - e nel miglior modo possibile - tutti i suoni che potete immagibare. Le chitarre acustiche, le elettriche, piano, organo, pure qualche accenno di folk (i violini e e le fisa che aprono il disco in "Too late to fixate" sono puro Dylan anni '70).

E poi ci sono le canzoni. La scrittura è perfetta: personale, introspettiva, ma mai banale e capace di regalare squarci illuminanti. "Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago", canta in "Next of kin" e c'è tutto un mondo in questo passaggio -  e seppure la versione è molto simile a quella di "Ruminations", ma l'aggiunta della batteria di Keltner rendono tutto ancora più drammatico ed intenso. Un gioello dopo l'altro, in cui è davvero difficile scegliere un brano. "Till St. Dymphna Kicks Us Out", "A little uncanny", "Salutations", fate voi.

Lo forza di Dylan e di tutto il meglio del cantautorato rock americano scorre potente in queste 17 canzoni, abitando in una personalità artistica enorme, che con questo disco ha raggiunto il suo apice.

 

 

Tracklist

01. Too Late to Fixate
02. Gossamer Thin
03. Overdue
04. Afterthought
05. Next of Kin
06. Napalm (05:00)
07. Mamah Borthwick (A Sketch)
08. Till St. Dymphna Kicks Us Out
09. Barbary Coast (Later)
10. Tachycardia (03:27)
11. Empty Hotel by the Sea
12. Anytime Soon
13. Counting Sheep
14. Rain Follows the Plow
15. You All Loved Him Once
16. A Little Uncanny (04:56)
17. Salutations

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