Quando succede, di solito va al contrario. Un artista pubblica un disco, e poi pubblica delle versioni acustiche dei brani. Qualche volta, capita anche che ripubblichi tutto il disco in versione minimale, magari come bonus o versione separata.
Ma Conor Oberst non è un artista normale. È uno dei migliori autori americani dell'ultima generazione, ma i suoi percorsi sono spesso tortuosi, tra Bright Eyes, Mystic Valley Band, Desaparecidos, Monsters of Folk.
L'accoppiata "Ruminations"-"Salutations" è forse uno dei punti più alti della sua carriera, ma non è stato un percorso semplice, neanche questo. "Ruminations" è stato il suo "Nebraska", inciso da solo, in inverno, a casa ad Omaha (Nebraska, appunto), dopo un periodo diffilcile. Un disco musicalmente scarno, poco più che acustico. Una sorta di seduta di psicanalisi in musica.
Pochi mesi e arriva "Salutations", che riprende il progetto originale dell'album, reincidendo le 10 canzoni con una band, con l'aggiunta di altre sette. E, il risultato, se possibile, è ancora meglio: siamo a marzo, e l'anno ci ha già regalato un mezzo capolavoro al mese di Americana: prima Mark Eitzel, poi Ryan Adams, ora questo disco.
L'album è stato inciso con i Felice Brothers come band, e con Jim Keltner come co-produttore. Quest'ultimo, per chi non lo conoscesse, è una leggenda. Da batterista ha suonato con i Maestri, dagli anni '70: era con Joe Cocker e Leon Russell in "Mad dogs & englishmen", ha suonato con tutti i Beatles (tranne McCartney), con Dylan, è l'uomo di fiducia di Ry Cooder e con John Hiatt era in quel capolavoro di "Bring the family".
L'insieme Oberst-Keltner-Felice Brothers, e l'aiuto di amici come Jim James (My Morning Jacket), Gillian Welch, Jonathan Wilson, rendono musicalmente "Salutations" una sorta di paradiso del suono americano, in cui si ritrovano - e nel miglior modo possibile - tutti i suoni che potete immagibare. Le chitarre acustiche, le elettriche, piano, organo, pure qualche accenno di folk (i violini e e le fisa che aprono il disco in "Too late to fixate" sono puro Dylan anni '70).
E poi ci sono le canzoni. La scrittura è perfetta: personale, introspettiva, ma mai banale e capace di regalare squarci illuminanti. "Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago", canta in "Next of kin" e c'è tutto un mondo in questo passaggio - e seppure la versione è molto simile a quella di "Ruminations", ma l'aggiunta della batteria di Keltner rendono tutto ancora più drammatico ed intenso. Un gioello dopo l'altro, in cui è davvero difficile scegliere un brano. "Till St. Dymphna Kicks Us Out", "A little uncanny", "Salutations", fate voi.
Lo forza di Dylan e di tutto il meglio del cantautorato rock americano scorre potente in queste 17 canzoni, abitando in una personalità artistica enorme, che con questo disco ha raggiunto il suo apice.