di Marco Di Milia
Il crepitio della neve appena fuori dalla porta di casa e la compagnia notturna di un pianoforte. Non è servito molto altro a Conor Oberst per trascorrere il lungo inverno del Nebraska e trovare un rifugio sicuro nella musica. Costretto a un periodo di forzato riposo da una diagnosi piuttosto pesante, il prolifico cantautore - già passato per le aspirazioni alt-rock e le suggestioni country di Desaparecidos e Bright Eyes - si è stabilito a Omaha, sua città natale, in compagnia di pensieri scuri e un bel po’ di legna per il camino. L’insonnia e la stagione fredda hanno fatto il resto. Conor si è lasciato cullare dai propri fantasmi, senza avere un’idea precisa della direzione da seguire. In questo flusso di coscienza solitario e crepuscolare ha iniziato a prendere forma “Ruminations”.
Conservando intatto lo spirito di quelle folgoranti ispirazioni notturne, l’album è stato registrato in soli due giorni, con un’attrezzatura ridotta all’essenziale: oltre al piano, compaiono solo la chitarra, mai troppo protagonista, e l’armonica a dare contrappunto alle parole. La voce è il vero strumento aggiunto dellastrumentazione a disposizione con cui Conor scopre tutto il suo animo dolente, riflessivo e appesantito da un’incurabile inconsolabilità di fondo. C’è una vena di vulnerabile languore nelle tracce di “Ruminations” e al tempo stesso la voglia di descrivere un’emotività piuttosto livida con disincantato realismo, finendo così per condividere con il mondo i suoi tormenti esistenziali. Le parole colpiscono forte, come probabilmente il vento di quelle parti. Storie fragili, di paura e di umanità sconsolante, come in “Tachycardia” e in “Counting sheep” dove candidamente escono allo scoperto impulsi auto-distruttivi e immagini durissime di una pistola puntata in bocca. Perché ogni cosa deve avere la sua conclusione, anche se quando finisce per aprire spiragli di malinconica redenzione, come quella offerta da un amico in ““You All Loved Him Once”, una spalla che l’introverso Conor Oberst vorrebbe avere accanto per ubriacarsi fino a farsi buttare fuori dal locale.
"Ruminations” è indiscutibilmente nero e amaro, fatto di un folk lacerante e spoglio. Una tradizione americana che richiama da vicino il Dylan di “Blood on the tracks” e più di una eco dello Springsteen solitario di quegli stessi orizzonti geografici: un’eredità complessa che qui è tutta ripiegata su se stessa senza dover ricercare per forza l’autocommiserazione e lo strazio a tutti i costi, riuscendo, invece, a trovare il proprio bagliore. Il viaggio tra i dolori del giovane Conor apre un varco in un talento intricato e oscuro, in cui c’è tutto il tormento di un inverno trascorso in compagnia dei propri demoni, ma anche la necessità di non farsi inghiottire completamente dal male, di reagire al crollo fisico e agli attacchi di ansia e di stress che l’hanno obbligato al riposo forzato. L’affanno di dover dare tutte le risposte esistenziali che la sua anima pretende, ha portato Conor Oberst a realizzare un lavoro volutamente diretto e laconico, fragile e complesso e, per questo, terribilmente attraente. E’ un disco di rottura con il passato, come forse lo sono tutti i dischi concepiti tra i grandi spazi del Nebraska.