di Davide Poliani
Non che i Phish abbiano bisogno di andare incontro al pubblico, per carità: giunti con "Big Boat" al tredicesimo capitolo in studio della loro carriera, e con in bacheca una sfilza di titoli che li hanno resi negli anni una delle più solide realtà del panorama jam americano, Trey Anastasio e soci non sono arrivati al 2016 con la preoccupazione di piacere a tutti.
Chi nel successore di "Fuego" rintraccerà un approccio più diretto alla scrittura e un certo smussamendo degli angoli tenga conto di due cose: la prima, che i dischi, per una band come la loro, sono (anche) una sorta di doloroso distillato, una specie di biglietto da visita per non iniziati che dei loro leggendari set sanno poco o nulla. La seconda, che proprio in virtù degli ormai trent'anni di carriera l'accettare nuove sfide è necessario, se non addirittura vitale.
Ecco perché, al netto dei gusti, "Big boat" è tutto sommato coerente con la carriera di chi l'ha scritto e registrato. Ci sono passaggi che sicuramente in molti - specie gli affezionati della formazione di Burlington, Vermont - faranno un po' di fatica a digerire, e non ci riferiamo tanto a quelli musicalmente meno a fuoco - "Waking Up Dead", per esempio, tutto sommato innocua, sicuramente non all'altezza della poderosa "Friends", in apertura, o della struggente "Miss You" - quanto a una visibile virata introspettiva nei testi, concretizzatasi a tratti felicemente - si ascoltino "Tide Turns", "Home" o ancora "Miss You" - a tratti meno - quel "I had to get away, I was losing my interest / Instead of expanding my world I was just scanning Pinterest" in "Things People Do" come rima non è esattamente il massimo: davanti a giganti come loro, premiare l'impegno è presuntuoso, ma constatarne il coraggio e l'umiltà nel mettersi nonostante tutto in discussione è per lo meno doveroso.