di Andrea Valentini
Sono passati quattro anni dalla trilogia "¡Uno!", "¡Dos!" e "¡Tré!": era decisamente giunto il tempo per un nuovo lavoro firmato Green Day. Ed ecco, quindi, arrivare il loro dodicesimo lavoro in studio, prodotto - da veri duri e puri - da loro stessi.
Dati questi presupposti, anche il lato prettamente musicale del disco è sviluppato di conseguenza. Chiariamo subito: ora i Green Day non si sono messi a fare prog, né folk; anzi in "Revolution Radio” ci sono anche alcuni pezzi punk melodici nella loro miglior tradizione (e sono forse i più deboli del lotto: i Green Day hanno detto tutto il dicibile – e molto bene – in questo capo già da un bel po’ di tempo). È palese, però, un certo avvicinamento a sonorità e atmosfere sempre meno esuberanti. Paradossalmente, quindi, gli episodi più interessanti sono quelli più introspettivi, come l’opener “Somewhere Now”, “Say Goodbye”, la rock ballad americanissima con spezie Seventies di “Troubled Times”, la ruvida e strascicata “Too Dumb To Die”.
Certo, poi ci sono le cadute di tono totali: vedi “Outlaws”, una specie di ballata da spot per body antipancia per casalinghe dell’Iowa, musicalmente degna dei peggiori Michael Bolton e compagnia di cinquantenni col mullet (magari trapiantato) phonato. Ma son cose che capitano, tanto più in un ambito come quello del punk pop/pop punk in cui la band manovra da tre decenni a questa parte.
Non sarà certo un disco ricordato per l’impatto, l’energia e la freschezza pop punk, questo nuovo dei Green Day. E lasciatemelo dire, meno male, perché tutta quella freschezza, dopo 30 anni, inizia a puzzare un po’ di talco mentolato su piaghe da decubito, con tutto il rispetto. Del resto Armstrong e i suoi sembrano averlo intuito abbondantemente e mostrano di avere in mente una sorta di evoluzione, frutto di un procedimento che gli angolofoni definirebbero “coming of age”. La crescita, la maturazione, il raggiungimento dell’età adulta – quel periodo in cui si fanno i conti coi sogni che non ci sono più, con la realtà che magari non è esattamente come ce la eravamo immaginata e con le responsabilità che la soglia dei 40 anni e più comporta.
In buona sostanza, questo non è il nuovo “American Idiot”, ma è di sicuro un bel disco di transizione. Resta da capire dove porterà questo cambiamento e se davvero verrà portato a termine. Per ora godiamoci questi nuovi brani, con tutti i loro pregi… e i difetti, che fanno sempre e deliziosamente punk.