Nell'ultimo anno molti artisti afro-americani hanno dedicato i loro ultimi progetti musicali alla questione dei diritti del popolo nero, dall'ispirato “Black Messiah” di D'Angelo fino al definitivo e massimalista “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar. Ora l'elenco si arricchisce - è il caso di dirlo – con il nuovo lavoro di Blood Orange, nome dietro il quale si cela Devonté Hynes, poliedrico cantante e produttore che questa volta realizza un disco sorprendente partendo proprio dalla propria esperienza: ragazzo londinese timido e inquieto, figlio di cattolici sudafricani (la Freetown del titolo è il nome della città, capitale della Sierra Leone da cui proviene il padre) trasferitosi prima nel Nebraska e poi a New York, vivendo segretamente un profondo conflitto con la sua sessualità, il suo essere immigrato, il rapporto con il cristianesimo e con gli stereotipi legati al maschio nero.
Tutti questi temi fino ad oggi erano rimasti sottotraccia, coperti da uno strato di weirdness che, come una corazza, facevano risaltare più la parte produttiva musicale piuttosto che quella dei contenuti.
“Freetown sound” è un disco sull'identità e sulla diversità, sull'attualità dei Black Lives Matter (“Hands up” è una toccante visione in prima persona su Michale Brown, un innocente 17enne ucciso da un vigilante volontario) ma anche di fede e speranza (“Augustine” e “Thank you”). Nonostante i temi alti e complessi, il tono di voce rimane sempre quello delicato e intimo, mai retorico o declamatorio, e la musica quel delicato synth pop mescolato al funk e al r'n'b molto leggero e di chiara matrice anni 80, dentro un mare di synth, sax e drum machine.
C'è il pop melodico del Michael Jackson post-Bad (“Augustine”, “But you”), il funk psichedelico e principesco (“E.V.P.” con Debby Harry), il funk tropicaleggiante (“Best to you” con Empress of, forse il capolavoro del disco) e l'elegante downtempo pop (“Hadron Collider” con una sorprendente Nelly Furtado e “Thank you”). Dopo le felici esperienze con Solange e Sky Ferreira, Dec Hynes spinge l'acceleratore sulle collaborazioni femminili: oltre alle cantanti sopracitate c'è anche Zuri Marley (“Love Ya”) e Carly Rae Jepsen (“Better than me”). Manca solo Janet Jackson, vera musa ispiratrice del suono di Blood Orange. Oltre ai featuring il disco è pieno di altre voci, dalla poetessa Ashlee Haze in apertura, fino a campionamenti di documentari come “Black is.... black ain't” del regista e attivista gay black Marlon Riggs (in “With him”) e da “Paris is burning” doc sulla scena lgbt di New York. “Freetown Sound” è un disco molto lungo – 17 canzoni – e se sulle prime può sembrare confuso e disarticolato (in molti l'hanno paragonato a un mixtape per come è costruito), entrandoci dentro si riesce a trovare una complessa unitarietà.
Per farla breve, uno dei dischi dell'anno.