“Canzoni della cupa” e i concerti che seguiranno chiudono il discorso aperto con il libro “Il paese dei coppoloni” e il film “Nel paese dei coppoloni” . Un discorso iniziato nel 2003, quando Capossela effettuò le prime registrazioni mettendosi sulle orme di Matteo Salvatore. La sua non è un’escursione nostalgica in un’Italia rurale cancellata dalla modernità, ma un viaggio alla ricerca di segnali e suoni da un mondo antico da trasfigurare. Questo fa Capossela nelle migliori “Canzoni della cupa”: non prende la materia popolare per salvarla, ma per mimarla scrivendo canzoni originali. Non ha alcuna preoccupazione di tipo filologico. E spazia, nei riferimenti al popolare italiano, dalla Campania alla Puglia, e oltre. E così Flaco Jimenez aggiunge l’accordion a una storia calitrana, due violinisti francesi reclutati in un circo producono stridori poetici, i Los Lobos e i Giant Sand (Howe Gelb e i Calexico assieme e separati nelle stesse canzoni,
Capossela ripete l’operazione nei testi. Alcuni restano fedeli alle parole che ha imparato dai cantori e dai «poderosi narratori orali». Altri trasfigurano piccole esperienze umane, storie di paese di tradimenti o lavori di fatica o feste sfrenate rielaborate dalla sua immaginazione. Per orientarsi, inserisce nella confezione cartonata scomponibile del doppio cd i commenti canzone per canzone e indici delle creature citate (vere e immaginarie, dal ciuccio al Pumminale), dei luoghi (la stazione, il camposanto, la cascina), dei personaggi (da Franceschina che si concede ai capocantieri della ferrovia fino a Dio). Emerge dallo sfondo una concezione di comunità che t’abbraccia e che ormai ci è sconosciuta e pure l’idea di esistenze messe a repentaglio dalla natura, da condizioni di lavoro dure, dalla malattia, persino da fantasmi. È il messaggio che arriva a noialtri figli della post modernità: la vita trionfa e lotta e canta forte quando è esposta al rischio e al pericolo. E difatti a Capossela piace citare Dylan quando dice che non c’è nulla di rassicurante nella musica folk.
“Canzoni della cupa” non è un disco facile o leggero, nessuno degli ultimi di Capossela lo è. Non ha la grazia, la poesia, l’invenzione folgorante dei suoi lavori migliori. Contiene una trentina di canzoni divise in due dischi chiamati “Polvere” e “Ombra”, di un’ora ciascuno. Il primo è più folkeggiante, con adattamenti da Salvatore e pezzi ispirati a canti popolari; il secondo contiene canzoni originali che rimestano la medesima materia con atmosfere decisamente più scure, arrangiamenti misurati, canzoni lente e affini al Capossela che conosciamo. Il cantautore non cerca la raffinatezza della scrittura, non allinea composizioni importanti, mette assieme tanta di quella roba da spingere chi l’ascolta a farlo con cautela, a prendere questa iniezione di folclore reimmaginato in dosi omeopatiche. Riesce però nell’impresa di tradire quel mondo e intanto di farcene innamorare. Racconta quella che per lui è la natura perduta di noi italiani e un mondo che sta scomparendo e difatti chiude l’album (prima di una ghost track) con “Il treno” che porta i migranti verso nord. Uno di essi era il padre di Vinicio.