Abbandonati da tempo i pruriti e le pulsioni nu-metal di grana più grossa, i Deftones sono stati in grado, con il loro ottavo album in studio, di tirare fuori dal cilindro il classico coniglio sorprendendo tutti. “Gore” è godibilissimo e al contempo personale, con quel mix di chitarrone stratificate e la voce di Chino Moreno, cantilenante, sofferta e da crooner, a volte in falsetto, a fare da contrappunto. Qui il selling point – o, se vogliamo utilizzare un termine meno crudo, la virtù – del disco è un approccio che libera il termine metal dall’obbligo morale di aggredire a testa bassa, menando mazzate e fendenti senza badare più di tanto alla precisione e al bersaglio; per approfondire, potremmo dire che i Deftones dimostrano di essere una delle poche metal band che, pur essendo annoverabili a pieno titolo nella categoria, non utilizzano solo il registro più limitato della violenza fine a se stessa, ma alternano la rabbia a momenti più quieti, soffusi, di natura post punk, ambient e new wave.
Il risultato è un disco che riprende, amalgama e sviluppa le atmosfere più scure di “Koi No Yokan” al piglio sperimentale di “Diamond Eyes” (2010), regalando un’esperienza di ascolto totalizzante, capace di stimolare più sensi e l’immaginazione, grazie a chiaroscuri e repentine oscillazioni di atmosfere.
Sarebbe forse azzardato o semplicistico affermare che “Gore” è – nell’anno 2016 – il miglior lavoro (e il più compiuto) mai sfornato da Chino Moreno e i suoi. Ma di sicuro si tratta del loro album più “avanti”, moderno e articolato, dotato di una qualità importante: la facoltà di incuriosire e affascinare.