Questo nuovo “Chaosmosis” rappresenta un altro tassello in questo percorso camaleontico di ricerca, configurandosi come un disco che per certi versi può richiamare l’attitudine di “Screamadelica” per la solarità, la leggerezza dell’approccio sonoro e la contemporaneità pop. Ma Gillespie & Company hanno cercato il più possibile di rifuggire la citazione del collaudato, assemblando – appunto – questo album con occhio attento a ciò che sta succedendo attorno a loro: e non a caso hanno chiamato alla loro corte, in veste di ospiti e collaboratrici, anche le Haim e Sky Ferreira – due realtà che, piacciano o meno, rappresentano uno spaccato di ciò che è il pop “new school” del secolo XXI.
“Chaosmosis” a un primo ascolto suona come un cocktail leggero, di quelli che si trangugiano con piacere per iniziare una serata destinata a crescere: melodie accattivanti, atmosfere mai opprimenti o ansiogene, tanto smalto e un mood patinatissimo, suggestioni rock/psichedeliche ridotte al minimo, quasi impalpabili. Il tutto, però, reso e plasmato con la tipica classe che Gillespie ha dimostrato di possedere come dono innato – e che gli permette di aggirarsi camaleonticamente nei più svariati mondi musicali (dal protopunk stoogesiano dei primordi, passando per il dance rock, la neopsichedelia, il pop, il rock sudista, il Madchester sound...). E i primi due terzi dell’album sono un ottimo manifesto che celebra questa speciale abilità, proponendo una versione mai banale, né plastificata/omogeneizzata a uso del mercato, di ciò che la definizione di pop può evocare nel 2016.
Il problema è che giunti alla fine della breve e tesa “When the blackout meets the fallout” qualcosa sembra incrinarsi. Uno scherzetto davvero troppo zuccheroso e facilone come “Carnival of fools” getta un’ombra su quanto di buono ascoltato fino a quel momento e precipita la band nel limbo dell’electropop da fast food, roba che i Primal Scream non potranno, né hanno mai voluto essere (ci auguriamo). “Golden rope” invece è un buon pezzo molto più rock, dal retrogusto stonesiano oppure alla “Give ut but don’t give up”, ma nell’economia del disco non ha particolarmente senso. Per non parlare della chiusura di “Autumn in paradise”, ruffiana, condiscendente e molto Nineties, forse anche potenzialmente un successo commerciale, ma poco aderente allo spirito del disco.