E ora, invece, i vecchi fans e anche quelli che poco li amarono sembrano volerli riscoprire prima che sia tardi, stringersi attorno a un modo di fare musica senza pretese se non quella di piacere subito oppure mai più. “Livefields” è questo, la testimonianza di un abbraccio tra un pubblico disorientato e un gruppo che ora non è più solo una macchina da soldi, ma una band con una sua storia, una memoria, un caduto (Jeff Porcaro), e un orgoglio che forse prima non possedeva. E nella risposta da parte del pubblico (che immaginiamo un po’ brizzolato ma indomito) pare di cogliere una gioia autentica, un feeling che non è più solo ammirazione per gli impeccabili sessionmen che avevano aperto una remunerativa fabbrica di canzonette. “Toto, questo non è più il Kansas”, direbbe Judy Garland (dal “Mago di Oz”). Ma per una sera, è bello tornarci, immaginare che là fuori i Massive Attack o i Marilyn Manson del mondo non abbiano cinicamente tirato le ultime mazzate a una musica rassicurante e inebriante come questa. E anche la gaia critica non può che chinare la testa: chi si lamentava della sciocchina “Rosanna”, non può non avere un tuffo al cuore pensando a come è cambiato lo standard di “pop commerciale”, e fare un falò di tutti i dischi dei Boyzone e Spice Girls; parte “Tale of a man”, e ci si chiede cosa si è fatto di male per meritarsi Will Smith.
I brani sono 19, e uno dei due dischi include i video di “Melanie” e “Cruel”; nella scaletta è evidente che oltre a privilegiare l’ultimo album si è fatto di tutto per evitare i doppioni con “Absolutely live”. Dal punto di vista sonoro, è sempre più evidente come i Toto, entrati nel terzo decennio di vita, abbiano deciso di non perder tempo a “riverniciare” il loro sound con una patina di modernità, magari in caccia di nuove generazioni. Più saggiamente, sono tornati al “Toto-sound” che da “Hold the line” ad oggi ha fatto drizzare le orecchie e tamburellare le dita in tutto il mondo, i cui estremi sono la “quasifusion” di “Jake to the bone” e l’irresistibile versione semiacustica di “The road goes on”. Certi episodi, come l’assolo di batteria di Simon Phillips, sono invece una sorta di rivendicazione della propria appartenenza a un filone del rock: in quanti album se ne ascoltano più? In conclusione, un disco con diversi momenti piacevoli, anche se certamente non è, in sé, materiale da leggenda. Anche perché il suo significato sta altrove: l’album è soprattutto una foto-ricordo di una serata senza menate, offerta a chi ha assistito al concerto e non si è pentito, anzi.
Tracklist:
Disc 1
Caught in the balance
Rosanna
Million miles away
Jake to the bone
Dave’s gone skiing
Out of love
Mama
You are the flower
The road goes on
White sister
Disc 2
I will remember
Hold the line
Won’t hold you back