Jack Garratt - PHASE - la recensione

Recensione del 22 feb 2016 a cura di Claudio Todesco

Voto 6/10
S’alza un falsetto assieme a una sequenza di suoni distorti e meccanici, in una miscela di delicatezza e brutalità. A un piano filtrato e lontano s’abbina a un canto acuto, vagamente operistico. Fruscii digitali segnano un crescendo gospel-soul che altri avrebbero musicato con pacatissimi strumenti ad arco. Un pianoforte distribuisce note di desolante bellezza per poi essere spazzato via da un inserto EDM. Da un bordone cupo si staccano distorsioni di chitarristiche. I momenti migliori dell’album di debutto di Jack Garratt sono quelli più ambigui, quelli che ti trasportano in un mondo di segni sonori indecifrabili. E del resto l’arte dell’ambiguità è una delle caratteristiche del
cantautore inglese già autore di alcuni EP e oggi in ascesa verticale grazie alla vittoria del Brits Critics’ Choice Award e al piazzamento in cima alla lista degli autori del sound del 2016 stilata dalla BBC. È lui la “next big thing” certificata dall’industria del disco britannica.


Jack Garratt non è un artista elettronico, non è un cantautore tradizionale, non è un chitarrista rock, non è un melodista pop. Eppure tutte queste identità convivono armoniosamente nella sua musica, senza dare l’impressione d’essere assemblate in modo forzato. Detto in breve: è un songwriter di stampo tradizionale che immerge le canzoni in paesaggi sonori digitali. “Amo manipolare gli stili”, ha detto a Rockol , “decostruirli e renderli irrilevanti”. È bravissimo nel creare un mondo attorno alle sue canzoni ed è pure in grado di scrivere pezzi di grande impatto, come dimostrano il singolo “Worry” e “Weathered” con il suo crescendo ipersentimentale, composizioni che reggerebbero con qualunque arrangiamento. Abituato a pensare la musica in perfetta solitudine, è autore, performer, arrangiatore, produttore di quasi ogni nota suonata nell’album, e del resto pur avendo solo 24 anni d’età ha una lunga storia alle spalle. È anche un chitarrista di formazione rock-blues, e la cosa emerge solo dal vivo, ad esempio nella coda della versione del singolo “Worry” registrata
per le “Berlin sessions” .
L’album funziona soprattutto quando Jack Garratt dà un suono alle sue inquietudini, nei momenti in cui esplora le sue ossessioni, e certamente testi più efficaci avrebbero nobilitato un disco con pochi riempitivi, tipicamente quelli in cui l’influenza EDM si fa pacchiana e distrugge l’equilibrio fragile fra cantautorato confessionale e manipolazione digitale su cui si regge l’intero lavoro. Funziona pure quando l’inglese si mette a fare il cantautore intimista, sedendosi alla tastiera e cantando con trasporto drammatico “My house is your home” in un’incisione che chiude l’album in un’atmosfera casalinga, fra accordi “blue” e lo scricchiolio dello sgabello del pianoforte. Fra l’ipotesi di incidere un disco cupo e “artistico” e uno di facile consumo, l’inglese ha scelto una via di mezzo che per il pop mainstream del 2016 suona come una novità degna di nota. È musica come percorso catartico, piena di saliscendi emotivi, momenti di suspense e melodie orecchiabili. È un buon inizio.

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