Kula Shaker - K 2.0 - la recensione

Recensione del 23 feb 2016 a cura di Marco Di Milia

Voto 8/10
C’è stato un momento in cui i Kula Shaker erano davvero sulla vetta dell’Himalaya, quando uscivano con il loro album d’esordio, quel “K” pubblicato nel 1996 che fece il grande botto con un ibrido di pop, revival rock e misticismo indiano. Un’esplosione visionaria di suoni e colori che non passò inosservata, catapultando il biondo Crispian Mills e i suoi sodali ai piani alti delle classifiche di mezzo mondo con una serie di singoli pigliatutto. Insomma, i numeri c’erano ma la band un po’ meno, tanto da fare il tonfo col secondo album. Altri tempi, altre fascinazioni spirituali, ma nonostante dalle parti di Rishikesh ci siano passati in tanti, i Kula Shaker guardano ancora verso quella direzione con “K 2.0”, a dare nuova forma al proprio spirito giovane.


In effetti l’intenzione di chiudere un cerchio aperto venti anni fa è evidente fin dal titolo, che richiama sì alla vetta himalayana ma anche a un secondo capitolo della saga di “K”, perché mai come in questo album la band inglese ha ripreso quel linguaggio ibrido di chitarre e sitar che ne aveva fatto la fortuna. “K 2.0” riesce a offrire una versione completa - e in qualche modo aggiornata al nuovo millennio - dei Kula Shaker a chi nel 1996 per ragioni anagrafiche o semplice distrazione se li era lasciati sfuggire. In un concentrato proposto in un’unica soluzione ritroviamo tutto il cosmo K: anima vintage, amore per la psichedelia e il recupero di quelle reminiscenze mistiche che via via si erano iniziate a sfilacciare nel corso delle sortite discografiche - piuttosto centellinate - della band. Che qualcosa si stava muovendo in quella direzione era chiaro fin da quando il primo teaser (apparso online il giorno dell’eclissi di sole del settembre scorso) mostrava una Terra vista dallo spazio con un sitar in crescendo a farne da colonna sonora, una sorta di risveglio del vecchio spirito dei Kula, nascosto in un silenzio che durava dal 2010.

Si parte con il mantra di “Infinite Sun”, il brano più apertamente “indiano” del disco, dal sapore così irresistibile da riportarci tutti agli anni ‘90 - e prego notare nel grande gioco dei citazionismi del disco anche quel balbettio su “changes” che ricorderà pur qualcosa - che porta i Kula Shaker nel loro territorio più congeniale, quello del rock con aura mistica. “K 2.0” scorre via piacevolmente, passando da episodi acustici a brani più strutturati carichi di tessiture vocali, tra il pop ammaliante di “Holy Flame” e “Oh Mary”, gli echi western di “High noon” ed episodi più marcatamente psichedelici come la lunga ed eterea “Here come my demons", che nella parte centrale sfodera un roccioso riff cui è davvero difficile resistere.
Senza inventarsi nulla, il nuovo album rappresenta quello che sono stati finora i Kula Shaker, da band proiettata verso l’empireo, a nicchia, senza perdere smalto, frullando e rifrullando il proprio background musicale: quel gusto un po’ retrò, tra rock e misticismo e una certa fascinazione per le melodie che fanno muovere la testa senza rendersene conto. Fuori dal tempo, non è certo l’album che farà gridare al miracolo o convertirà schiere di detrattori, ma l'ideale seguito di "K" a vent'anni di distanza suona esattamente come ti aspetti, col quel suo stile controcorrente e incantatore fatto di chitarre, hammond, melodie e una certa vocazione indù.

In fondo la creatura di Re Kulasekhara riesce in questa piccola magia senza essere preda delle mode del momento, rimanendo fedele a se stessa: non male per chi non ha né la proboscide né quattro braccia.

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