Michael Hutchence - MICHAEL HUTCHENCE - la recensione

Recensione del 20 ott 1999

Ogni volta che qualcuno abbandona questa valle di lacrime, si tende a farlo apparire più serio, più artista, più buono, più meglio, di quello che era. Se oggi, come molti cattivoni si augurano, i Backstreet Boys venissero schiacciati da un meteorite, dopo un paio d’anni qualcuno salterebbe fuori a parlarci della loro natura di star tormentate e vicine alla scintilla dell’ispirazione purissima.

E’ per questo, e solo per questo, che esitiamo a definire questo album un grande album. Perché onestà vuole che si considerino tutte le variabili, non ultima quella che vede lo scomparso leader degli INXS raffigurato fin dalla copertina come un’ombra, gli occhi chiusi su sfondo nero e funebre. Come per ricordarci che stiamo parlando di un morto, e quindi in ogni caso dobbiamo parlare sottovoce. Ma è giusto farlo? Dobbiamo credere a Andy Gill, il produttore, che dice che se il disco suona “diverso” dall’Hutchence che ci aspetteremmo, è perché il cantante da tempo stava maturando una svolta? Beh, la svolta l'ha avuta - perdonateci il cattivissimo gusto. Ma l’impressione è di trovarci di fronte a un disco che è tanto di Gill, coautore di parecchi brani, quanto di Hutchence. L’ex Gang of Four ha lavorato di cesello per più di un anno, da solo, realizzando un disco che forse sarebbe stato diverso, se M.H. fosse sopravvissuto. Sarebbe stato accompagnato da una copertina più sexy, un video con una bella sventolona per il brano più funky (“Get on the inside” è un ottimo candidato a fare da singolo)...
E’ quindi con una certa cautela che affermiamo che il disco è bello. E molto, anche. E che contiene alcuni brani che qualunque cosa stiate facendo, vi faranno alzare gli occhi per come reclamano attenzione, per come raggiungono in due mosse qualcosa dentro chi ascolta. Alludiamo a “Flesh and blood” e “Don’t save me from myself”, ancora più che il duetto virtuale con Bono di “Slide away” (che comunque, è una zolletta di zucchero con quella punta amara che mette gli stranguglioni). Era questo, il lato oscuro di uno dei più grandi animali da palcoscenico degli anni ’80? E perché non è mai venuto fuori prima, messo in secondo piano da “bionde suicide” e “Beautiful girls” inseguite coi suoi partner “Nell’eccesso”? Che peccato che solo ora, dopo una carriera ventennale, arrivi un disco così equilibrato, che non nega le attitudini più mandrille della popstar australiana, che in tutta la sua carriera aveva sempre cercato l’eccitazione, il “Kick”, ma forse aveva anche altre “Possibilities”. E siccome a volte un po’ di verità sta nei titoli delle canzoni, provate a dare un’occhiata alla tracklist che segue. “Get on the inside”, “Let me show you”, “Fear”, oltre alla già citata “Don’t save me from myself”. E’ buffo: Hutchence non voleva essere salvato da se stesso. Ma questo disco lo salva. Suo malgrado.

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