All’epoca, i fratelli Ron e Russell Mael – in sostanza il cervello della band – erano ancora membri, seppur fondatori, ispiratori principali e autori di tutti i brani, di un gruppo rock “normale”, si fa per dire. “Si fa per dire” perché gli Halfnelson pre-Sparks normali non erano, tanto è vero che si sono evoluti nella band più obliqua e zigzagante e che la storia del rock ricordi.
Ecco, la mia impressione è che con questa operazione congiunta Sparks – Franz Ferdinand (l’acronimo FFS può stare anche per “For fuck’s sake”, “per amor del cazzo”, ma l’esclamazione in inglese non è così didascalica) i fratelli Mael, i miei eroi, abbiano fatto un salto nel passato di 45 anni. E non so se sia un bene o un male, in generale. Per gli Sparks, ormai confinati, come dicevo, a un ruolo di “cult band”, l’operazione significa un rilancio di visibilità del tutto inatteso, e non c’è niente di cui vergognarsi; per i Franz Ferdinand è un altro passo nella direzione di quell’art-pop-rock del quale sono comunque già i più interessanti esponenti; non essendo un fan dei secondi, il mio è il parere del cantore della genialità sparksiana, che qui trovo, inevitabilmente, annacquata. In altre parole: la straordinaria originalità di “Lil’ Beethoven” (uscito nel 2002,
Perché, alla fine, “FFS” appunto non è un album degli Sparks. E’ l’album di un gruppo risultante da un incesto, dalla fusione innaturale di due outsiders perenni californiani attivi da 45 anni e di una giovane band di Glasgow che ha debuttato nel 2003. C’è da apprezzare lo sforzo con cui questo centauro cerca di apparire il frutto di un reciproco desiderio (stima, apprezzamento, ammirazione) e di un progetto senza precedenti; ci sono momenti in cui la voce baritonale di Alex Kapranos affianca il caratteristico falsetto di Russell Mael con disinvoltura e con buoni risultati; ci sono episodi riusciti come l’autoironica, ma in realtà sincerissima, “Collaborations don’t work” (quasi un’ammissione di colpa, no?), o come “Johnny delusional”, un bel pezzo e forse quello più simile agli Halfnelson, o come la malinconica “Save me from myself”, dove mi pare di sentire un’esplicita citazione di “Sunny afternoon” dei Kinks.
Ma “So desu ne” (in giapponese “Ah, capisco…”) fa pensare più ai Devo che agli Sparks, “Piss off” non è travolgente come sarebbe potuta essere, “Little boy from suburbs” è pregevole per l’atmosfera ma melodicamente irrisolta. I testi, ah, quelli sì sono interessantissimi, del tutto fuori schema rispetto al rock e al pop contemporaneo (cercate quello di “Police encounters” o quello di “The man without a tan”); ma non bastano – almeno a noi italiani, che le parole cantate in inglese non le capiamo - a farci capire l’originalità dei brani. E così “Call girl”, con il suo doppio senso annunciato già nel titolo, non riesce ad essere il singolone che potrebbe/vorrebbe essere – troppo lenta, quindi poco allegra, quindi poco entusiasmante.
Gli FFS saranno in tour in Italia quest’estate: andrò a sentirli dal vivo, o almeno spero di riuscirci, e magari riferirò del concerto annunciato a Rovereto per il 5 settembre, l’ultimo previsto (gli altri sono a Genova il 7 luglio, a Catania il 16 luglio, a Treviso il 3 settembre).