Sono in tre e vengono da Atlanta, la città della Coca Cola e di Martin Luther King. E anche se oggi vivono in giro per il mondo – il cantante afroamericano Franklin James Fisher a New York, il bassista Ryan Mahan e il chitarrista Lee Tesche a Londra – il Sud è rimasto dentro gli Algiers. Non quello idealizzato fatto di ville antebellum, viali di querce sempreverdi e soul food servito da mamie prosperose, ma quello fatto di centri commerciali, povertà, abbrutimento, soprusi della polizia. Ed è trasfigurato, questo Sud, grazie a un linguaggio immaginifico e vibrante. Non è un fumetto e nemmeno una cronaca di vita nel ghetto. È un sermone pagano dove immagini bibliche spiegano Baltimora e il tempo che viviamo ha le sembianze dell’apocalisse. Fisher s’impone come voce del giusto, però senza i moralismi o i luoghi comuni che abbruttiscono certa musica politicamente impegnata. I testi sono a volte d’incerta decifrazione, i temi dei diritti civili, del sesso, della religione, della decadenza, dell’alienazione e del potere non sono trattati e risolti come in un saggio antagonista, ma esposti in piccole parabole appassionate che incitano a una reazione emotiva, a combattere la frustrazione, a reagire all’apatia.
Fisher è cresciuto col gospel. Da ragazzo lo sentiva provenire dalla radio, dallo stereo di casa, dai cori in chiesa. Oggi usa il pathos e la forza espressiva di quella musica non per lodare il Signore, ma per raccontare la contemporaneità con rabbia. Il gospel è nel suo canto declamato con passione, è nei cori maschili che evocano il calore di una comunità, è nella spinta all’aggregazione sottintesa alle canzoni. Ma per gli Algiers il passato non è un feticcio. Il gospel è calato in un ambiente sonoro plasmato da sintetizzatori, campionamenti, programmazioni, e strumenti “preparati” che suonano in modo volutamente insolito e misterioso. Come se Nick Cave e Nina Simone si fossero ritrovati a cantare nei Suicide. E così la musica degli Algiers ha la crudezza elettronica della band di Alan Vega, i suoni gelidi della contemporaneità, le distorsioni chitarristiche e gli spigoli del post punk, i rumori dell’industrial, lo spirito del punk-rock, ma anche il conforto derivante da una voce che per impeto ed espressività si riallaccia ai grandi cantanti afroamericani del Novecento oppure incita con rauca veemenza alla rivolta fino a saturare il suono. Il tono è ora tormentato, ora teso, ora selvaggio. Gli arrangiamenti sono stilizzati e densi, i colori carichi, l’espressività viva, come nella formidabile “Blood”. Per trovare qualcosa di famigliare bisogna ascoltare “Irony. Utility. Pretext.”, che fa fare un salto indietro all’epoca dei synth anni ’80, e “Games” che ha l’eleganza ferita del repertorio di Nina Simone.
In antitesi col distacco ironico di cui s’alimentano oggigiorno il rock e il pop, “Algiers” rilancia un’idea di musica che mira a scuotere dall’apatia, che è cosciente del passato – il sito della band cumula segni, immagini, foto che vanno da Marx ai Public Enemy passando per il Weather Underground – ma non passatista. E lo stesso vale per la musica. Essenziale e potente, mette assieme stili che fino a ieri sembravano inconciliabili – ecco perché suona così nuova e stimolante, un mondo da esplorare. Convinti che “nella seconda metà del ventesimo secolo la chitarra ha commesso più crimini pop di qualunque altro strumento”, gli Algiers hanno costruito un microcosmo sonoro originale e lontano dai clichè del rock, inventando un ibrido gospel-noise che è spirituale e viscerale almeno quanto i cori che il piccolo Fisher ascoltava in chiesa. E anche se i rapporti razziali nell’America di Obama sono l’ultima delle vostre preoccupazioni, in “Algiers” troverete un nuovo tipo di bellezza, funerea e intimidente.