Sting - BRAND NEW DAY - la recensione

Recensione del 27 set 1999

In genere, dai 20 ai 30 anni si fanno canzoni (e si ascoltano canzoni) come se la nostra vita dipendesse da loro.
In genere, dopo questa fase della vita, questo tende a non succedere. Se non altro, non con la stessa intensità.

In genere, non c’è una spiegazione. Non basta dire che prima o poi viene il giorno in cui - come direbbe Er Piotta - non si è più i ghepardi di una volta.
Certo è che Sting non è più il ghepardo di una volta. Questo disco è la rinuncia forse definitiva al desiderio di primeggiare in hit-parade, di confrontarsi con Madonna, Bono e gli altri, a loro volta impegnati a confrontarsi con le star emergenti. Ci pensino loro a tentare ancora la via del disco epocale, inseguendo il rinnovamento e le giovani generazioni, cercando di agganciare Mtv e le radio. “Brand new day” è un album che va totalmente per conto suo, un disco che rivela un musicista alla deriva rispetto a una rotta precisa, tra bossa nova e Bach, tra country e jazz, come in preda a perenne indecisione, indifferenza, e l’immancabile narcisismo stinghiano. Alla fine ci si chiede: se queste dieci canzoni non fossero cantate da Sting, quanti si fermerebbero ad ascoltarle? Ma dal momento che Sting è uno dei dieci musicisti più importanti degli ultimi 20 anni, e che gli appassionati di musica sono in genere sempre incuriositi da quello che fa, forse si dovrebbe mettere in conto che lui cerchi di sfruttare il vantaggio di un riverito nome.

Chi ha meno di 30 anni, non può certo specchiarsi in questa musica. E chi ha più di 30 anni, non può aspettarsi sempre i Police. E l’impressione è che si tratti di una scelta. Al prof. Gordon Sumner non interessa se “Brand new day” non sarà mai un successo planetario, e non verrà campionata da Puff Daddy. E probabilmente fa spallucce quando Madonna gli dice da chi dovrebbe farsi rimissare i singoli (in modo da passare nel Deejay Time, con una base che fa bum, bum, bum? Ma suvvia). Preferisce rivolgersi direttamente alla generazione cresciuta con lui. Che ha avuto il tempo di entrare in contatto con sapori d’africa e trombe Milesdavisiane (“Big lie, small world”) e non si scompone se “Fill her up” inizia come country e finisce come gospel. Indicativa anche la scelta degli ospiti, che in realtà paradossalmente non pesano molto sui brani (eccetto Stevie Wonder, e il discutibile rap francioso di Sté), Sting sciorina James Taylor, Vinnie Colaiuta, Cheb Mami, Brandord Marsalis e Mino Cinelu neanche fosse Frank Sinatra con il suo Rat Pack. “Questo sono io, e questi sono i miei e vostri vecchi amici”, sembra dire.

Ultima istruzione per l’uso: non aspettatevi il brano che vi dia soddisfazione immediata: Sting (grazie al sesso tantrico?) si misura sulla lunga distanza. Proprio per aver raggiunto il massimo di immediatezza coi Police, oggi l’immediatezza non gli interessa più. Può permettersi di non tornare indietro, e continuare ad approfondire la propria via alla musica: senza svendersi o menare inutilmente il can per l’aia come quei suoi colleghi considerati sempre e comunque eroi. Ecco come il disco, pur non essendo un capolavoro, dal terzo ascolto comincia a prendersi la sua rivincita su sublimi novità che, dopo i primi entusiasmi, non hanno più nulla da dare. “Brand new day” è un viaggio in piacevoli territori, in compagnia di un musicante che riesce persino a sprigionare un po’ di calore, sorprendendo chi lo ritiene un compiaciuto stoccafisso. E poi, possiede due cose non ancora clonabili: la voce, e i testi. Come Sting riesca a incarnare l’emblema dello scostante nobiluomo della musica, e poi scrivere canzoni che parlano d’amore in modo toccante e non banale, rimane un mistero.

Tracklist:

This desert rose
Perfect love... gone wrong
Brand new day
After the rain has fallen
A thousand years
Ghost story
Big lie, small world
Tomorrow we’ll see
Fill her up
The end of the game

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