Non è rimasto granché dello spirito di “The woods”, l’album prodotto da Dave Fridmann in cui il trio s’avventurava in territori rock classici, quasi psichedelici. “No cities to love”, fuori il 20 gennaio, ha trame sonore robuste, ma trasparentim, l’ideale per enfatizzare testi e melodie. Ma è solo apparentemente semplice. È il frutto di un linguaggio sonoro personale nato dall’interazione fra le parti vocali sfrontate di Tucker e lo stile chitarristico spigoloso di Brownstein – “acrobatico” lo definisce l’amica St. Vincent, la prima artista a sponsorizzare l’album. Non ci sono lenti o ballate, se il termine ha un senso riferito alle Sleater-Kinney, ma un attacco sonoro dietro l’altro. Come l’iniziale “Price tag”, un pezzo teso e acuto mosso da riff brevi e distorsioni urticanti. Oppure “Surface envy”, annunciata da un riff discendente e scorticato da graffi chitarristici, che culmina in un accordo finale dissonante.
Il tempo non ha depotenziato la band, forse le ha tolto un po’ della leggerezza rock’n’roll che emergeva dai vecchi pezzi. Grazie al sound primitivo, basato sulle angolazioni chitarristiche di Brownstein e Tucker ed esaltato dal drumming poderoso di Janet Weiss (vedi “No anthems”), “No cities to love” dà all’ascoltatore l’impressione di stare in sala prove col trio, nonostante si percepiscano overdub che esulano dalla formula due chitarre + due voci + una batteria. È mosso dal furore ereditato dal punk, ma non rinuncia al potere delle melodie, come avviene in “A new wave”. A volte sembra che la voce di Tucker e la chitarra di Brownstein combattano per prendersi la scena (“Gimme love”), a volte emergono melodie cangianti, in pezzi che suonano come piccole opere punk-rock (“Hey darling”). L’album dura poco – 10 canzoni per 33 minuti – e forse anche per questo non contiene un momento di stanchezza, che pure sarebbe fisiologico per musiciste attive da oltre vent’anni.
“No cities to love” restituisce un gruppo integro, fedele ai propri valori musicali e politici, e fortunatamente lontano da dogmi e slogan. Che parlino d’amore (“Gimme love”) o delle storture del sistema capitalista (“Price tag”), del concetto di soft power (“No anthems”) o della ricerca di una dimensione interiore pacificata (“Bury our friends”), del ritiro della band dalle scene (“Hey darling”) o di turismo atomico (esiste: la gente va a visitare i siti delle centrali e i luoghi dove sono state fatte detonare bombe nucleari, di questo tratta la title track), le sue canzoni invitano a restituire potere agli individui attraverso l’azione collettiva. Allo stesso tempo, sono abitate da un senso di precarietà che culmina nel finale cupo e heavy di “Fade”. E non si tratta solo della precarietà della band, ma di quella di tutti noi. “No cities to love” rimbalza fra queste due storie. Non è consolatorio e nemmeno sconfortante. Trasmette un senso d’urgenza contagioso. Le Sleater-Kinney sono tornate per ricordarci il valore salvifico della musica.