Nicki Minaj - THE PINK PRINT - la recensione

Recensione del 17 dic 2014 a cura di Pop Topoi

Voto 7/10
L'album precedente di Nicki Minaj, "Pink Friday: Roman reloaded", era diviso in modo abbastanza netto in due metà: una fatta di pezzi in cui l'artista si lanciava in lunghe e deliranti sequenze rappate esibendo tutti suoi famosi alter-ego, spesso senza nemmeno accennare ritornelli; una costituita da brani dance che sembravano venire da Ibiza e che, commercialmente, le sono serviti per imporsi come un grosso nome internazionale. Con "The pinkprint", Minaj doveva decidere quale genere far prevalere, ma col super-singolo estivo "Anaconda" non aveva preso una posizione chiara: era sì sfacciato, divertente e ballabile quanto "Starships", ma era anche credibile come disco hip-hop grazie al campionamento di Sir Mix-a-Lot e al messaggio contenuto. Spin l'ha definita "più di una canzone: un movimento culturale" – e che fosse una scusa per fare un video provocante o una rivoluzionaria campagna femminista, di certo se n'è parlato. Tuttavia, "Anaconda" è un'eccezione all'interno di un album che mostra una Minaj nuova, e tra il rap abrasivo e l'EDM per le masse, ha scelto una terza via.





La prima cosa che colpisce ascoltando gran parte di "The pinkprint" è il tono serio e intimista, e la sconvolgente apertura di "All things go", in cui Minaj parla di tragedie famigliari e allude a un aborto, ne è il manifesto. I brani sono perlopiù lenti e sofferti, talvolta vere e proprie ballate che documentano una rottura sentimentale che è miracolosamente riuscita a tenere privata. Minaj, a contrario di molti rapper, non ha bisogno di alcun aiuto nelle parti cantate ("I lied", "Grand piano" e soprattutto la splendida "Pills n potions"), ma a volte cede al classico formato strofa rap + ritornello di un vocalist. Non funziona con Skylar Grey nella scontata "Bed of lies" (potrebbe essere una versione meno efficace di un pezzo di Eminem e Rihanna), mentre "The crying game", in cui un'inedita Jessie Ware si trova a sussurrare su un loop di chitarre elettriche, è un duetto perfetto: intenso ma misurato. Non si può invece parlare di misura nelle collaborazioni con Beyoncé ("Feeling myself") e Ariana Grande ("Get on your knees"). Nessuno dei due brani, malgrado i nomi coinvolti, suona come un singolo: il primo è la continuazione ideale di "***Flawless" remix ed è un esperimento altrettanto astratto, esagerato e spassoso; il secondo non è sensuale quanto vorrebbero farci credere i miagolii di Ariana Grande (Ariana, dà retta a Bette Midler, il gattamortismo non ti dona) e forse sarebbe stato più adatto per l'album della cantante che quello della rapper.

E poi arriva "Only", collaborazione con Drake e Lil Wayne mirata a far tacere i pettegolezzi secondo i quali Minaj sarebbe arrivata al successo solo grazie al sesso con membri del suo entourage. È una battaglia scandita dagli interventi di Chris Brown, e sebbene molti ci leggano la volgare oggettificazione della Minaj, è invece una chiara dimostrazione del suo potere – di una rapper che si mette sullo stesso piano dei colleghi maschi e li distrugge senza fatica con due rime. "Only" è l'esempio più lampante, ma gran parte di "The pinkprint" ci mette di fronte a un'artista non solo più abile, ma anche più profonda e sfaccettata di quanto si potesse credere. È un disco complesso e maturo, forse danneggiato solo dall'eccessiva lunghezza, ma quando fa centro, non ce n'è per nessuno.

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