Roots - AND THEN YOU SHOOT YOUR COUSIN - la recensione

Recensione del 29 mag 2014 a cura di Michele Boroni

Voto 7/10
Da qualche anno Ahmir "Questlove" Thompson non è più solo il batterista e leader dell'unica band hip-hop (peraltro resident ) del Late Show americano più divertente e influente della tv USA), quello di Jimmy Fallon. E' anche un vero e proprio punto di riferimento storico-culturale della black music. Lo scorso anno ha scritto un bel libro sullo show tv Soul Train e da circa un anno è diventato
contributor fisso del New York Magazine in cui dice la sua sulla musica del passato e del presente. Poche settimane fa sono usciti una serie di articoli a tesi di profonda critica nei confronti dell'hip-hop contemporaneo ( How Hip-Hop Failed Black America ), ormai diventato - secondo Questlove – un genere mainstream che ha perduto la spinta di espressione popolare e culturale degli esordi, facendo trionfare omologazione e cliché superficiali.
Questo lungo cappello è per dire che anche quest'ultimo lavoro dei Roots si pone sulla stessa linea di pensiero del suo leader, allontanandosi ancora una volta dalla classica produzione hip-hop. Se il precedente “Undun” era un vero e proprio concept album questo “… And Then You Shoot Your Cousin” è più una raccolta di storie di degrado e violenza raccontati da vari personaggi.

Con questo disco l'hip-hop assume una forma nuova, lontana da quell'insieme di stereotipi tra gangsta e product placement di luxury brand che è diventato in gran parte, magari non proprio la “CNN del ghetto” come l'aveva efficacemente definita Chuck D negli anni '90, ma più un reportage d'autore di quelli che si trovano in qualche festival del cinema (non a caso l'apertura di Nina Simone suona molto da opening title).

E in questo sta il pregio e, in parte, il limite di “… And Then You Shoot Your Cousin”.
Non è un disco di facile ascolto: cupo, dark e volutamente frammentato, dove il rapper Black Thought, che sfoggia una voce ancora più matura e gutturale, si mette in secondo piano per far spazio ai vari ospiti (Dice Raw, Patty Crash, Raheem DeVaughn) nella parte dei vari personaggi presi dalla strada.
La musica, magistralmente suonata dalla band, pesca a piene mani dal soul e funk anni 70 (viene addirittura preso a prestito “Yeah, yeah” dei Blackrock, in “Black rock” appunto, uno dei pezzi più duri ed efficaci del disco): si passa dalle tinte scure, quasi trip-hop acustico, di “Never”, agli accompagnamenti più soul e leggeri di Understand ma sempre con testi di rassegnato pessimismo (“People ask for God, ’till the day he comes / See God’s face, turn around and run”), pezzi basati su sinistre linee di piano in minore (“The Unraveling”) e orchestrazioni jazz dissonanti (“The Dark (Trinity)”) .

Insomma, hip-hop per adulti con riferimenti alti, testi crudi e di cinico black humour anche se alla fine un piccolo spiraglio di ottimismo si apre nel finale aperto di “Tomorrow “ (“Send a message to God in Heaven / I’m thankful to be alive”). Un disco sicuramente non perfetto e pienamente compiuto – a tratti fin troppo intellettuale e compiaciuto – però che offre una valida alternativa all'hip-hop da classifica.

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