Conor Oberst è un maestro dei sentimenti ambigui. Nella stessa canzone riesce a carezzare la speranza e arrendersi all’insensatezza della vita. E così sono le tredici canzoni di “Upside down mountain”, accomunate dai temi della ricerca di requie esistenziale, della disillusione amorosa, della morte. Messe una in fila all’altra, raccontano il tentativo di scendere dalla cima di solitudine che tutti quanti prima o poi abbiamo scalato. Oberst invita a diffidare dalle letture autobiografiche di queste canzoni. Di certo ha coraggio a cantare “do la caccia al violentatore che dà la caccia a te” sei mesi dopo le accuse di stupro avanzategli on line (il cantante si professa innocente e ha chiesto un risarcimento danni). Dotato del calore del migliore cantautorato, “Upside down mountain” non ha nulla della riflessione esistenziale mesta. Non è confessionale, annota l’artista, semmai è colloquiale. Ed è insolitamente diretto per uno che ha scritto una cosa indecifrabile come “The people’s key”. In alcuni frangenti ha un’aria celebrativa e persino ritornelli pop cantabili. È sempre intenso, anche quando allinea le parole amare di “Artifact #1” o di “Lonely at the top”, resti inceneriti di vecchie storie d’amore.
Erano anni che non sentivamo Conor Oberst così ispirato. I suoi ultimi due album sprizzavano vitalità, ma erano dispersivi. Non “Upside down mountain”. Questo fa parte della categoria di dischi che ti cullano dentro una storia, un’atmosfera, un mondo. Parte del merito potrebbe essere attribuibile al co-produttore Jonathan Wilson, a sua volta songwriter e punto di riferimento della rinascita del folk-rock californiano, variante Laurel Canyon. Oberst tende a stipare nei dischi stimoli, stili, idee. Forse gli ha fatto bene stare al fianco di un musicista con una visione, per quanto rétro. Ma non c’è spirito revivalista, qua dentro, e non solo per la modernità di certe tastiere. Pedal steel, vibrafoni, flauto, trombe, percussioni, organo, pianoforte e tante, tante chitarre elettriche e soprattutto acustiche vestono perfettamente la voce di Oberst. Ecco, la voce: nasale e sempre giovanile, vibrante e apparentemente fragile, padroneggia ogni sfumatura come poche volte in passato.
Ho controllato l’età di Conor Oberst. A aoli 34 anni ha cumulato un repertorio degno di un veterano: una decina di album coi Bright Eyes, quattro da solista, innumerevoli progetti paralleli, dai Desaparecidos ai Monsters Of Folk. Oggi la sua musica ha l’ispirazione fresca di un ventenne, ma non fatalmente il fuoco di dieci anni fa, e il mestiere di un cinquantenne. Racchiuso in una copertina dipinta da Ian Felice dei Felice Brothers, “Upside down mountain” mette in fila una serie impressionante di ottime melodie. È uno dei dischi migliori dell’ultimo Oberst, con e senza Bright Eyes. Possiede un’ambiguità seducente. Ti dice che l’eterna ricerca di soddisfazione non è vana, che zigzagando verso la luce qualcosa di buono prima o poi accade. Poi ti sussurra all’orecchio la massima di Michel Houellebecq: la puoi affrontare con tutto il coraggio e l’ironia di cui sei capace, ma la vita finirà comunque per spezzarti il cuore.