Qualche mese fa, l'artista svedese presenta il primo assaggio dal nuovo lavoro e la discoteca non potrebbe essere più lontana. "Love me like I'm not made of stone" è un video cupo e riflessivo in cui la cantante gira su se stessa in stato confusionale; il brano è scarno e ruvido, Lykke piange un amore finito su una chitarra che esita quanto la sua voce. È un demo e verrà lasciato tale, con le sue imperfezioni, persino nella versione dell'album. È l'esempio più estremo di "I never learn", ma anche nelle otto tracce restanti non c'è nessun accenno di serenità e sembra non ci sia nemmeno la voglia di cercarla. Il titolo dell'album suggerisce proprio questo: la ventottenne non ha ancora imparato, e non imparerà mai, a sopravvivere alla fine di un amore, ma ha anche accettato che la sua arte si nutre di questo. Nel corso della sua trilogia discografica, Lykke Li ha dapprima proposto un indie-pop naïf e colorato per poi perdere gradualmente ogni inibizione, consegnandoci una fotografia sempre più nitida del suo animo. Oggi non ha paura di sembrare troppo drammatica nelle sue torch song
Il suo fedele collaboratore Björn Yttling (dei Peter Björn & John) si è evoluto con lei creando una coppia artisticamente inossidabile, e anche Greg Kurstin, che qui produce due brani, s'immerge nel mondo di Lykke Li lasciandosi dietro tutti i suoi scintillanti successi pop. È un album che trova nove modi per declinare il cuore infranto della cantante, ma che, durando solo 33 minuti, sa anche fermarsi prima che l'ascoltatore rimpianga lo svago di "Youth novels" o l'aggressività di "Wounded rhymes". Il successo di "I follow rivers" è destinato a rimanere un'eccezione nella sua discografia, ma "I never learn" è un lavoro che consolida un'artista che, pur di assecondare i suoi impulsi e presentarsi senza filtri, è pronta a sacrificare i riscontri commerciali (e forse anche la sua serenità).