Mogwai - RAVE TAPES - la recensione

Recensione del 27 gen 2014 a cura di Marco Jeannin

Voto 8/10
Quella dei Mogwai è una storia a parte. La loro è un'altra dimensione. Me li vedo, seduti al bancone di un pub (facciamo quello di Barry Burns a Berlino) a farsi due chiacchiere: “Qualcuno sa quanto hanno fatto i Rangers domenica?”. Il barista nicchia e, cambiando intenzionalmente discorso, fa notare che “Les Ravenants” pare sia piaciuto parecchio in giro. Stuart fa lo gnorri: “Ma va? Anche “Zidane” non era male comunque”. E qui subentro io, che me ne sto seduto un po’ più lontano con una pinta arrivata a metà. “A me ragazzi è piaciuto pure
“Hardcore will never die” , che va bene che il primo ascolto in cuffia magari ti lascia qualche dubbio (lo dico per catturare la loro attenzione, mica perché ci credo), ma appena arrivi sotto palco tutto quello che hai in testa, dubbi, gioie, dolori, il numero del tuo conto corrente e dove hai parcheggiato la macchina, ti viene spazzato via con la furia di un tornado”. Dominic, che fin qui è rimasto nascosto dietro Stuart, si sporge mi sorride; poi cala il silenzio e ognuno di noi cerca di scoprire se il fondo del bicchiere è davvero trasparente come dicono.



Funziona così per i Mogwai no? Ascolti i dischi, ce la metti tutta per andare a pescare il pelo nell’uovo - e di solito la questione gira intorno al fatto che i ragazzi col tempo hanno perso vagamente mordente rispetto alle prime cose; meno sperimentali, meno post rock, meno speciali, più pacati e più “per tutti” - eppure quando ti ritrovi faccia a faccia con loro, le chiacchiere stanno a zero. Non pensi più alle colonne sonore, vecchie o nuove, o agli Ep, belli o brutti. Non pensi che sono passati la bellezza di diciassette anni da “Young team”, e che c’è ancora chi ha il coraggio di rimpiangerlo. No. I dischi dei Mogwai non vanno chiacchierati, figuriamoci rimpianti. Sono dischi che nascono per il motivo più semplice ed ovvio che si possa immaginare: essere suonati e ascoltati dal vivo. La faccenda delle velleità è roba vecchia; l’argomento era già trito ai tempi di “The hawk is hawling” (che io, per inciso, difenderò a morte finché campo), figuriamoci oggi alla luce di questo nuovo “Rave tapes”.

“Rave tapes” che, giusto per solleticare i palati più fini e permettere a me di ingrassare il paragrafo, va a pescare in maniera molto più esplicita dal repertorio Mogwai di quanto mai fatto fino ad oggi. I Mogwai adesso si citano, vedi “Blues hour” (“Cody”), “Heard about you last night” (“Earth division”), “Hexon bogon” (“Mr. Beast”) e “Master Card” (in pratica una b-side soft di “Batcat”), e, una volta esaurite le citazioni, vanno dritti per la loro strada. Impossibile non notare una estrema continuità con “Hardcore will never die”, soprattutto da un punto di vista di mood, di arrangiamenti, e di struttura. Continuità data, più che ovviamene, dal fatto che i due album sono prodotti dalla stessa persona, quel Paul Savage che non smetteremo mai di ringraziare per i suoi Delgados.

Tutto ciò fa di “Rave tapes” il disco contemporaneamente più interessante, più “classico” e più spiccatamente ironico che i Mogwai abbiano messo insieme da tempo (vedi “Repelish” e la tirata sui messaggi subliminali nascosti in “Starway to heaven” tratta da un programma radiofonico del 1981 a cura di Michael Mills
, membro della chiesa evangelica, omonimo del bassista dei R.E.M ). Un disco completo ed essenziale, in perfetto equilibrio tra il sintetico e l’analogico, le due facce dei nuovi “vecchi” Mogwai (“Remurdered” docet). Del resto Stuart, Dominic, Barry, Martin e John sono, musicalmente parlando, quasi maggiorenni; era inevitabile che giungessero alla piena maturazione. Ancora un disco o due come questo e vedrete che anche gli ultimi scettici svaniranno nel nulla, lasciando il campo libero a chi ha sempre avuto solamente voglia di un nuovo disco di questi imperturbabili scozzesi per andare sotto palco e godere di quella magia potente che immancabilmente si sprigiona. “Rave tapes”? Gran bel lavoro, come sempre. I Mogwai? Una storia a parte.

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