Tutto questo è stato il Vangelo almeno fino all’inizio dell’estate appena trascorsa; poi è arrivato un reality check di quelli tosti: Lemmy era stato male, aveva subito un intervento al cuore... brutta storia, ma poi tutto pareva superato. E invece dopo una brutta botta ha sviluppato un ematoma che non si assorbiva e la sua salute decisamente non eccellente lo ha costretto ad annullare addirittura un tour europeo (o gran parte di esso). I Motörheadbanger di tutto il mondo sono rimasti col fiato sospeso per settimane, anche per la scarsità di notizie e aggiornamenti, ma ora sembra tutto risolto e con l’arrivo di questo nuovo album nei negozi si tira un mezzo sospiro di sollievo.
Lemmy c’è. Punto. E non sembra minimamente intenzionato a gettare la spugna. Ri-punto. Il rock’n’roll, con i suoi 50 anni di Jack Daniel’s, coca cola, decibel, groupies, anfetamina e Marlboro rosse ha tentato di farlo fuori... e ha fallito miseramente.
Finiti i doverosi preamboli, passiamo al disco – il ventunesimo in studio della carriera dei
Inutile ricordare che i Motörhead da una ventina d’anni a questa parte hanno avuto un’evoluzione – per quanto organica e senza stravolgimenti – orientata progressivamente verso il metal, abbandonando sempre più le proprie radici hard/speed/punk (alla fine il punk lo hanno inventato un po’ anche loro, lo sappiamo). Dunque questo “Aftershock” riflette il percorso di cui sopra: è un disco più metal che altro, ma nonostante questo è Motörhead al 100%. Perché in fondo, come gli chef più hardcore insegnano, puoi cambiare un po’ spezie e condimenti, ma se la materia prima resta invariata e di ottima qualità, il risultato sarà sempre più che gradevole al palato. A dispetto dei dettagli di contorno.
A confermare che Lemmy ha ancora sangue, energie e rabbia, poi, ci sono episodi come “End of time”: un vero locomotore deragliante, lanciato a 300 all’ora, che spiana ogni cosa si trovi sul suo cammino. Puro Motör-sound, autocitazionista finché si vuole, ma rassicurante ed esaltante.
E che dire della hard blues ballad “Dust and glass”, con echi australiani stile primi AC/DC e un Lemmy farfugliante e soave, da pelle d’oca? Il mestiere c’è ancora, non si scappa.
Quindi, sia chiaro: “Aftershock” non è un nuovo “Ace of spades”, un secondo “Iron fist” ed è leggermente inferiore a quell’uppercut inaspettato che era il precedente “The wörld is yours”. Eppure costituisce una naturale continuazione di un discorso, fedele allo spirito della premiata ditta Motörhead nonostante un frontman che sfiora i 70 anni di età e la difficoltà di mantenere viva e guizzante una vena creativa che fluisce ininterrottamente da quasi 50 anni. Nell’economia di 14 brani, dunque, non c’è da stupirsi se si trovano un paio di riempitivi lievemente meno solidi, ma fa parte del gioco. Del resto la faccenda del “all killer, no filler” per pompare gli album è sempre stata una mezza favoletta, per cui... basta prenderne atto. A patto che si prenda atto anche di ciò che Lemmy e i suoi sono ancora in grado di fare, a dispetto di tutto. Che non è affatto poco.