Dodici pezzi, quasi settanta minuti. Sound asciutto, riff sporchi e pesanti come macigni; melodie acide (il marchio di fabbrica degli AIC) che si stagliano sullo sfondo e si impastano negli intrecci vocali perfettamente amalgamati (e di grande impatto) di Cantrell e DuVall, uno che d’accordo, non avrà l’intensità del suo predecessore, ma ha ampiamente dimostrato di meritarsi il posto dando quel tocco di in più, il suo tocco, ad ogni pezzo. Pezzi in questo caso più metal che rock, senza dubbio, messi ad asciugare all’aria di Seattle. Non c’è davvero molto altro da dire su questo disco se non che la sua grande bellezza risiede interamente nella sua forza. Una forza esibita senza compromessi, quasi uno sfogo. Il trionfo del songwriting di Cantrell; ballate scure di una chiarezza disarmante: “Hollow”… “Pretty done”, l’intro micidiale di “Stone”, un vero capolavoro, un toro che carica a testa bassa; oppure la bella e atmosferica “Hung on a hook”, messa giustamente in chiusura. “Voices” e “Scalpel”, trasudano l’essenza degli Alice In Chains, quelli che sanno scrivere grandi pezzi anche solo con una voce e una chitarra. E poi “The devil put dinosaur here”: quasi sette minuti per la discesa diretta agli inferi; titletrack perfetta, multiforme, stratificata. Non ci sorprende quello che sentiamo, questi sono gli Alice In Chains. A suo modo però è un pezzo unico e possente. Elegante e meraviglioso. “Lab monkey” e “Low ceiling”? Vedi sopra. “Breath on a window”, un treno in corsa. “Phantom limb”, di nuovo sette minuti furibondi di metallo grezzo, un colpo diritto al corpo, e infine “Choke” a chiudere il tutto con un tocco di malinconia. Una chiusura catartica che per contrasto rende tutto il resto ancora più definito e denso. Tutto ancora più bello.
“The devil put dinosaur here” è un signor disco. Un album da prendere con foga e consumare senza ritegno. Il nuovo disco degli Alice In Chains: ad oggi, uno dei migliori in assoluto usciti quest’anno. A Layne probabilmente sarebbe piaciuto.