Insomma questi tre Fonzie zombie di San Francisco alla fine, nonostante siano giunti al settimo album (un traguardo che non molti sfiorano senza mostrare, a volte anche da tempo, i segni del declino), restano fedeli alla loro essenza.
Blues metropolitano, shoegaze, psych pop, feedback sound, drug rock, proto-punk e una inedita spruzzatina di grunge mainstream… in questi 12 pezzi trovate tutto ciò, impacchettato nei i consueti giubbotti di pelle, occhiali da sole e jeans attillati.
La sensazione, soprattutto con i due brani d’apertura, è di ascoltare un malizioso mash-up di Velvet Underground, Jesus And Mary Chain e Oasis. O, se vogliamo, una sorta di Brian Jonestown Massacre più squadrati e Brit-pop… insomma, citazioni importanti e di tutto rispetto, ma anche molto connotanti.
Ma quando il mood drogaticcio e pop ti si è appiccicato addosso, si arriva al blocco centrale dell’album, ossia la coppia di pezzi più ruvidi e stomp del lotto: si tratta di un uno-due pugilistico messo a segno con la dura e cadenzata “Hate the taste” (un alternative blues rock punkizzato e rumoroso che alterna riff martellanti a esplosioni di chitarra) e “Rival” – che letteralmente ci ara la faccia con un groove hard funk, una chitarra quasi stoogesiana (wah-wah compreso) e un ritornello incalzante da cantare a squarciagola. Come dire: con due canzoni così decisamente si recupera all’istante la spesa affrontata per acquistare il cd.
Da qui in poi si prosegue con una sgroppata anfetaminica molto punk in stile Detroit (“Teenage disease”), a cui quasi obbligatoriamente segue un pezzo di puro drone rock lento, salmodiante, psichedelico e mortifero come droga di strada tagliata male – “Some kind of ghost”.
A questo punto sarebbe tutto quasi perfetto, se non fosse che arriva una composizione come “Sometimes the light”, una specie di demo scartato dagli Spacemen 3, inciso in una giornata di depressione poco ispirata: tre minuti e venti di voce lamentosa, sussurrata su un tappeto musicale da scena onirica di film indipendente anni Novanta. Ahia. E subito dopo “Funny games”, un po’ banalotta – anche se non brutta – non risolleva lo spirito.
A questo punto giunge il blocco del finale, un mastodonte di due pezzi che insieme sfiorano i 16 minuti di lunghezza: si parte con il blues gocciolante di feedback e morfina di “Sell it” (sei minuti e 46 secondi), che coinvolge fino al momento in cui – purtroppo – non diventa troppo lungo e noiosetto… era un pezzo da chiudere sui quattro minuti, diciamocelo; e poi gli otto minuti e 39 di “Lose yourself”, che suggella il disco con una lunga ballata intossicata, intorpidita e sofferta, dal vago retrogusto di Bowie, ma troppo dilatata e stereotipata.
Insomma, se avessero fatto un disco lungo la metà o poco più (siamo intorno ai 60 minuti complessivi), sarebbe stato il doppio più incisivo; così, invece, i Black Rebel chiedono un po’ troppo all’ascoltatore, che rischia di deconcentrarsi. Ciò non toglie che questo album sia un buonissimo esempio di musica per urban cowboys o aspiranti tali.
Astenersi salutisti e moralisti.