Attraverso le tredici tracce, però, lo spettacolo ci appare fin troppo generoso e qualche atto è decisamente di troppo: “I matti di Roma”, per esempio, è film già visto, come lo è “Senza notte né giorno”, legato al mondo dei minatori cui Cristicchi è stato addentro negli ultimi anni. Anche “Il sipario” appesantisce la struttura con uno spaccato di retorica d’altri tempi. Essere capaci di selezionare e asciugare, per offrire il meglio, non è una dote secondaria. E il meglio di questo disco sono canzoni come “Laura”, dedicata alla toccante storia di Laura Antonelli, che Cristicchi interpreta con chiara emozione; “Cigarettes”, che sul finale – affidato alla voce di Nino Frassica – sa avvolgere l’ascoltatore in una scomoda sensazione di vergogna (non vi sveliamo perché, per non privarvi dell’emozione dell’ascolto), e “Le sol le mar”, con la collaborazione di Alessandro Mannarino, che disegna un quadro grottesco delle tante contraddizioni italiane, e strappa più di un sorriso. Tiepide, invece, le canzoni sentimentali: “Canzone piccola” e “La cosa più bella del mondo”, in cui il minimo sforzo, a questo giro, ha prodotto minimo rendimento. E per non farsi mancare davvero nulla, il disco chiude con “Testamento”, una breve e delicata poesia di Mauro Maré, poeta romanesco del secondo 900, che parla di morte e sepoltura, tema che attraversa il disco partendo dalla sanremese - e poco riuscita - “La prima volta (che sono morto)”, per finire con un accenno di madrigale inserito come traccia fantasma. A spettacolo finito torniamo a casa un po’ annoiati, è vero, ma un grammo di emozione e un sorriso non sono mancati e, per ora, ce li facciamo bastare.
Simone Cristicchi - ALBUM DI FAMIGLIA - la recensione
Recensione del 23 feb 2013 a cura di Paola De Simone
Voto 5/10
Simone Cristicchi è un teatrante, prima ancora che un cantante. Non si spiegherebbe altrimenti come faccia a comporre dischi che somigliano a spettacoli teatrali più che a progetti discografici. Non che con la musica non abbiano a che fare, ma è evidente che questa serva spesso solo d’accompagnamento, lì dove si predilige il racconto e soprattutto si mira a sensibilizzare più che a emozionare. In questo, il quarto disco di Cristicchi – intitolato “Album di famiglia” - non si distacca dai precedenti, confermando così una cifra stilistica che sa di coerenza e credibilità. Se di spettacolo teatrale dobbiamo parlare, però, è necessario abbassare l’asticella delle aspettative in tema di musica, non essendo evidentemente tra le priorità e i talenti dell’artista romano, e anche riguardo al canto, a volte fuori dalla sua portata. “Mi manchi”, per esempio, che è uno dei due brani proposti al recente Festival di Sanremo, è stato scritto in una tonalità che comporta al cantante uno sforzo vocale eccessivo, tanto da portarlo a rasentare la stonatura, e questo crea all’ascoltatore un chiaro disagio uditivo. Ma “Mi manchi” è al contempo una delle canzoni meglio riuscite del disco, che un po’ ci riporta al mondo lontano del cantautorato sussurrato, quello più sensibile della nostra storia musicale, vicina a quel Sergio Endrigo che Cristicchi ama tanto, e noi come lui. Tolto l’aspetto più strettamente musicale, tolto il canto a volte arrancato – che in uno spettacolo teatrale è perdonabilissimo – resta la sceneggiatura che si compone di tematiche sfaccettate, personali quanto condivisibili: dignità umana, gogne mediatiche, vita e morte, infanzia rubata e affetti familiari. Il tutto condito con rimandi storici e una buona dose di poesia.
Attraverso le tredici tracce, però, lo spettacolo ci appare fin troppo generoso e qualche atto è decisamente di troppo: “I matti di Roma”, per esempio, è film già visto, come lo è “Senza notte né giorno”, legato al mondo dei minatori cui Cristicchi è stato addentro negli ultimi anni. Anche “Il sipario” appesantisce la struttura con uno spaccato di retorica d’altri tempi. Essere capaci di selezionare e asciugare, per offrire il meglio, non è una dote secondaria. E il meglio di questo disco sono canzoni come “Laura”, dedicata alla toccante storia di Laura Antonelli, che Cristicchi interpreta con chiara emozione; “Cigarettes”, che sul finale – affidato alla voce di Nino Frassica – sa avvolgere l’ascoltatore in una scomoda sensazione di vergogna (non vi sveliamo perché, per non privarvi dell’emozione dell’ascolto), e “Le sol le mar”, con la collaborazione di Alessandro Mannarino, che disegna un quadro grottesco delle tante contraddizioni italiane, e strappa più di un sorriso. Tiepide, invece, le canzoni sentimentali: “Canzone piccola” e “La cosa più bella del mondo”, in cui il minimo sforzo, a questo giro, ha prodotto minimo rendimento. E per non farsi mancare davvero nulla, il disco chiude con “Testamento”, una breve e delicata poesia di Mauro Maré, poeta romanesco del secondo 900, che parla di morte e sepoltura, tema che attraversa il disco partendo dalla sanremese - e poco riuscita - “La prima volta (che sono morto)”, per finire con un accenno di madrigale inserito come traccia fantasma. A spettacolo finito torniamo a casa un po’ annoiati, è vero, ma un grammo di emozione e un sorriso non sono mancati e, per ora, ce li facciamo bastare.
Attraverso le tredici tracce, però, lo spettacolo ci appare fin troppo generoso e qualche atto è decisamente di troppo: “I matti di Roma”, per esempio, è film già visto, come lo è “Senza notte né giorno”, legato al mondo dei minatori cui Cristicchi è stato addentro negli ultimi anni. Anche “Il sipario” appesantisce la struttura con uno spaccato di retorica d’altri tempi. Essere capaci di selezionare e asciugare, per offrire il meglio, non è una dote secondaria. E il meglio di questo disco sono canzoni come “Laura”, dedicata alla toccante storia di Laura Antonelli, che Cristicchi interpreta con chiara emozione; “Cigarettes”, che sul finale – affidato alla voce di Nino Frassica – sa avvolgere l’ascoltatore in una scomoda sensazione di vergogna (non vi sveliamo perché, per non privarvi dell’emozione dell’ascolto), e “Le sol le mar”, con la collaborazione di Alessandro Mannarino, che disegna un quadro grottesco delle tante contraddizioni italiane, e strappa più di un sorriso. Tiepide, invece, le canzoni sentimentali: “Canzone piccola” e “La cosa più bella del mondo”, in cui il minimo sforzo, a questo giro, ha prodotto minimo rendimento. E per non farsi mancare davvero nulla, il disco chiude con “Testamento”, una breve e delicata poesia di Mauro Maré, poeta romanesco del secondo 900, che parla di morte e sepoltura, tema che attraversa il disco partendo dalla sanremese - e poco riuscita - “La prima volta (che sono morto)”, per finire con un accenno di madrigale inserito come traccia fantasma. A spettacolo finito torniamo a casa un po’ annoiati, è vero, ma un grammo di emozione e un sorriso non sono mancati e, per ora, ce li facciamo bastare.