Auteurs - HOW I LEARNED TO LOVE THE BOOTBOYS - la recensione
Recensione del
30 lug 1999
Nonostante i numerosi impegni del suo leader indiscusso (Luke Haines, che è a capo di altri due progetti, Baader Meinhof e Black Box Recorder), Auteurs, dopo anni d’assenza (l’ultimo disco, “After murder park”, risale al 1996), ritornano in scena. Sarà perché John Moore (il co fondatore di Black Box Recorder) è troppo impegnato a “spacciare” assenzio (la droga preferita dai “maudits” francesi, Baudelaire in testa, di cui Moore è importatore ufficiale in Inghilterra)? Poco importa, considerato che “How I learned to love the bootboys” è un gran disco. Sì, proprio un gran bel disco, che si lascia ascoltare dall’inizio alla fine. Un disco che, come dice Haines stesso, “è un lavoro fatto di 12 singoli”. Pienamente d’accordo con Haines, prendiamo atto che questo sfuggente ma intelligente artista pop inglese, toccato dalla musa ispiratrice della pop song, dopo aver fatto un passo indietro all’interno dei suoi punti di riferimento musicali, risfoderando quelle impennate glam che lo avevano accostato, nell’album d’esordio (“New wave”), ai Suede, non solo ha avuto la capacità di scrivere delle melodie accattivanti, ma ha anche saputo impreziosirle con arrangiamenti (soprattutto per archi) che danno spessore ai brani (vedi “1967” e “Sick of hare krishna”), rendendoli dei piccoli gioielli pop in bilico tra la semplice forma pop e quell’intimismo romantico che da sempre accompagna Haines e che fa di “How i learned to love the bootboys” non un disco pop da “usare e gettare”, ma un lavoro da gustare pian piano, canzone dopo canzone, singolo dopo singolo.
TRACK LIST
“The rubettes”
“1967”
“How I learned to love the bootboys”
“Your gang, our gang”
“Some changes”
“School”
“Johnny & the hurricanes”
“The south will rise again”
“Asti spumante”
“Sick of hare krishna”
“Lights out”
“Future generation”