Willy Mason - CARRY ON - la recensione

Recensione del 18 gen 2013 a cura di Alfredo Marziano

Voto 7/10
E' stagione florida di "cantautori", in Nord America, dove i singer-songwriters tornano a crescere come funghi e una generazione di musicisti trentenni si riscopre desiderosa di introspezione, di suoni analogici e di "provincia" (via dalla pazza folla delle metropoli), determinata a esprimersi senza scendere a (troppi) compromessi con il circo mediatico e le tavole della legge del pop business. Di questa bella stirpe
Willy Mason è in questo momento uno dei più chiacchierati ed apprezzati (soprattutto in Inghilterra, sempre votata alla ricerca spasmodica di novità): è nato a New York, è cresciuto a Martha's Vineyard (l'isola dei presidenti, dei liberal e di cantautori come James Taylor e Carly Simon) e ha una voce vissuta che non farebbe mai immaginare i suoi 28 anni (semmai 72, estremizza Victoria Segal su Mojo). Non ha l'intensità di Bon Iver , l'intelligente ed eccentrico gusto pop dell'ultimo Iron and Wine , l'erratica ed esubirenta versatilità di Bright Lights o di Sufjan Stevens , ma con soli tre album centellinati a considerevole distanza uno dall'altro sta costruendo un percorso stimolante e tutto sommato personale. Mai come in questo "Carry on", in cui forse sconcertando qualche purista si è affidato alle cure di un produttore dal background molto differente dal suo come Dan Carey: uno abituato all'electro pop (Hot Chip) e al mainstream tutto lustrini (MIA) che però sa maneggiare i suoni come fossero una tavolozza di colori da aggiungere al corredo strumentale.

Non è il caso di parlare di folktronica , Carey usa batterie programmate e Prophet, echi e riverberi come un direttore della fotografia farebbe con luci e filtri cosicché le ballate di Mason si muovono stavolta su fondali tremolanti, offuscati e spettrali ("Shadows in the dark", come titola una canzone) che sembrano tenere a mente la lezione di maestri dell'ambient come
Daniel Lanois . L'esempio perfetto è "Restless fugitive", un'onda ipnotica di sei minuti in cui l'autore racconta del ritorno a casa dopo il suo inquieto peregrinare (è autobiografia, e il tema centrale di un album che, lo ha spiegato lui stesso, gira intorno al concetto di "scegliere il proprio terreno e restarvi attaccato").



Ma anche "What is this", il pezzo iniziale, un altro dei piatti forti aperto da rintocchi in delay delle percussioni elettroniche, accordi di chitarra acustica, una elettrica in vibrato che squarcia la tela sonora e un vocione che ti cattura dalla prima nota.

Tutto parte da lì, da voce e chitarra (e a volte lì resta, immacolato nel suo stato primitivo, appena sottolineato da quasi impercettibili note di synth o di mellotron: il breve quadretto da folk club "Show me the way to go home" e la title track, intima, nuda e desolata come avrebbe potuto renderla una Mary Gauthier , "inseguendo sogni che sfociano nel dolore"), e dalle parole a volte enigmatiche di un cantautore che vanta una lontana parentela con Henry James. Rispetto ad alcuni suoi colleghi Mason è più uniforme, più prevedibile, più decifrabile, in un certo senso anche più "vendibile". Si iscrive perfettamente nel solco della canzone d'autore e della letteratura americana "on the road", con i suoi racconti di fuga (un altro è "Pickup truck") e le sue epopee western ("I got gold"); ha un timbro duttile che non disdegna il falsetto ("Talk me down", "Shadows in the dark") e una bella scrittura ariosa e melodica ("Into tomorrow") cui Carey ha aggiunto un bel senso del ritmo. Sono canzoni, le sue, da focolare, da mare d'inverno, da Greenwich Village rivisitato (Mason è un piccolo
Fred Neil ?), e con un finale aperto ("If it's the end": "Se questa è la fine non è l'unica/fai che ricominci, che si dispieghi"). E "Carry on" è il capitolo suggestivo di un piccolo romanzo in corso d'opera che promette trame avvincenti anche in futuro.

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